Il giardino dei ciliegi o sull’arte del dissipare

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Scrive Čechov alla moglie, l’attrice Olga Knipper, dopo la prima de Il giardino dei ciliegi, avvenuta il 17 gennaio 1904 al Teatro d’Arte di Mosca:

Perché sui cartelloni e negli annunzi sui giornali la mia pièce viene così ostinatamente chiamata dramma? Nemirovič e Alekseev [Stanislavskij] nella mia pièce non vedono affatto quello che io ho scritto e son pronto a darti senz’altro la mia parola che ambedue non hanno letto la mia pièce nemmeno una volta.[1]

Uno dei grandi classici del ‘900, opera con la quale Čechov ha reinventato il teatro moderno, Il giardino dei ciliegi, arriva sul palcoscenico della Triennale di Milano dopo l’anteprima all’ultima Biennale Teatro di Venezia, nella regia rivisitata di Alessandro Serra (già premio Ubu 2017 con Macbettu), che firma anche la drammaturgia, le scene, le luci e i costumi.

La grande sfida dell’acclamato regista italiano è proprio quella di restituire al testo cechoviano la sua vera essenza, spogliandolo «della tragicità che le moderne drammaturgie gli avevano impropriamente attribuito».

La scena è dominata da dodici personaggi che non fanno accadere nulla. Il fulcro della pièce sta tutto lì, nella caparbia ricerca di quell’effimero equilibrio tra l’irrealtà dei protagonisti e la loro pregnante verità, hic et nunc, nella dimensione spazio-temporale oniricamente sospesa dell’interpretazione drammaturgica.

Čechov, come tutti i grandi lacerati, si ribellava a quell’interpretazione unilaterale e accigliata della sua pièce. Solo chi arriva ai livelli più alti della desolazione (ed è ciò che Cioran pensava di Čechov), sa esprimere una comicità autentica, una levità consapevole e ricercata con grande lucidità, da opporre con fermezza a una tombale tetraggine. Čechov non aveva dunque concepito Il giardino dei ciliegi come un tragico piagnisteo, canto funebre di un mondo inesorabilmente votato alla conclusione della sua parabola storica – un mondo che stava per essere definitivamente spazzato via, sorpassato da un progresso incalzante e minaccioso come il suono metallico di quella ruota che, una volta messa in moto, nessuno più sarebbe riuscito a fermare. La presenza scenica della ruota che gira come un diabolico perpetuum mobile, cigolante e stritolante gli esili destini degli effimeri personaggi contrasta con la diafana presenza dei ciliegi, cifra poetica del vecchio mondo, la cui presenza si intuisce solo ma non si vede mai nei fondali umbratili scelti dal regista.

I destini di questi personaggi sembrano orbitare attorno all’asse fatale della dissipazione, un’arte questa così squisitamente russa, orientale, un «asiatismo», una noia e una fatalità contro le quali l’idealista, l’eterno studente, l’utopista Trofimov cerca di ribellarsi con gesti e parole libreschi, non ancorati alla realtà carnale, viva, pulsante dell’esistenza. Al suo raptus utopistico, Ljubov’ Andrèevna Ranèvskaja, donna fragile e malinconica, personificazione del fatalismo russo («Ah, le mie colpe! …»), incarnazione dell’eccesso e dello sperpero (sacrifica tutto in amore; sacrifica i suoi averi, affetta com’è da una pietas primordiale, morbosa, che la costringe a compiere atti di inaudita generosità ma anche di puro e insensato spreco), oppone la verità irrazionale e totalizzante dell’amore:

Bisogna essere uomini all’età vostra; bisogna comprendere chi ama. E bisogna che voi stesso amiate… bisogna innamorarsi! [Con ira]. Sì, sì. E in voi non c’è purezza; voi siete semplicemente un puritano, un ridicolo originale, un mostro…[2]

Ecco che anche dei personaggi inesistenti (di grande impatto scenico è la presenza degli attori sdraiati che gradualmente prendono vita, componendo un canovaccio umano fatto di grande irrequietezza, movimenti repentini, balletti, giochi, pianti, canti, borbottii, imbarazzi, fraintendimenti, filastrocche e suoni) acquistano verticalità e intensità inaudite quando si fanno voci oracolari di verità eterne – visioni eleusine che nessun progresso riuscirà mai a scalfire. Tra queste – la riaffermazione del dominio selvaggio e incontrastato di Eros.

I temi dell’opera sono interpretati con rigore filologico dal regista: c’è lo scontro tra il nuovo mondo (rappresentato dal rapace Lopachin che si aggiudica all’asta il giardino) e una classe possidente sciupata, giunta allo stremo, che da esso si lascia divorare, non essendo più capace di opporgli se non una resistenza del tutto formale, flebile e inutile; l’ex servo Lopachin, nella sua lungimiranza mercantile vuole abbattere il giardino e dividere successivamente il terreno «in tanti piccoli lotti per costruirci dei villini e darli poi in affitto»[3]: come non intravvedere nel suo piano la sconsolante profezia dell’avvento di una insettocrazia dei villeggianti, che, come locuste ormai invadono e deturpano a cicli infernali tutti i giardini della terra? La nostalgia dei tempi d’oro quando gli avi erano i custodi di una sapienza simbolizzata anche dall’arte della conservazione delle ciliegie è personificata dall’anziano maggiordomo Firs, ultima sentinella di un mondo che va incontro al suo inevitabile sfacelo, fragile e precario come i bicchieri che fa tintinnare sul vassoio: «Al tempo antico, quaranta o cinquant’anni fa, le ciliegie si seccavano, si mettevano sotto spirito, sott’aceto, se ne facevano delle conserve…»[4]: tutto ciò è stato dimenticato.

Di grande impatto scenico è il finale del terzo atto e il gioco di ombre nel quale si confondono la figura della madre e quella della figlia: d’altronde, anche nel testo i ruoli sembrano invertiti: è la figlia, Anja, che consola la Ranèvskaja, mater dolorosa et lacrimosa.

La messa in scena di Alessandro Serra si fa ammaliante e ipnotica anche grazie a una costante alternanza di vuoti e pieni, luci e ombre, fumo, chiaroscuri che fanno risaltare ancora di più i significati magmatici della parola cechoviana. L’intento del regista non è quello di decorare la scena (ci sono pochissimi, essenziali oggetti: per lo più sedie) ma piuttosto quello di veicolare emozioni e suggestioni attraverso un dirompente linguaggio visivo. La chiave stilistica è essenziale, sobria, elegante. Uno spettacolo che traccia solchi profondi nell’anima.

[1] Antòn Čechov, Racconti e teatro, Sansoni Editore, Firenze, 1966, p. 1352.

[2]Ivi, p. 1312.

[3] Ivi, p. 1300.

[4]Ibidem.

Dal sito della Triennale:

Alessandro Serra si avvicina al teatro attraverso gli esercizi di trascrizione per la scena delle opere cinematografiche di Ingmar Bergman. La sua formazione viene forgiata dal confronto con il teatro di Grotowski, i principi della biomeccanica di Mejerchol’d e lo studio del movimento di Decroux. Nel frattempo si laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo all’Università la Sapienza di Roma e nel 1999 fonda la Compagnia Teatropersona, con la quale comincia a mettere in scena le proprie creazioni che scrive e dirige curandone le scene, i costumi, le luci e i suoni. Tra il 2006 e il 2011 crea la “trilogia del silenzio” composta dagli spettacoli Beckett Box, Trattato dei Manichini e AURE, mentre nel 2015 si accosta al linguaggio della danza creando L’ombra della sera, dedicato alla vita e alle opere di Alberto Giacometti. Nel 2017 ritorna al teatro di prosa e crea Macbettu ispirato all’opera di Shakespeare e recitato in lingua sarda, nel 2019 firma la regia di Il costruttoreSolness con Umberto Orsini. Lo spettacolo Macbettu vince numerosi premi tra cui il Premio ANCT 2017, il Premio Ubu 2017 come miglior spettacolo dell’anno, il Premio le maschere del Teatro italiano 2019 come miglior spettacolo e migliori scene. Nel 2019 Serra vince il Premio Hystrio alla regia. I suoi spettacoli fanno il giro del mondo con tappe in Italia, Francia, Svizzera, Corea, Russia, Spagna, Bulgaria, Polonia, Germania.


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