Hong Kong nella morsa di Xi JinTrump

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Hong Kong continua a bruciare. Non si ferma nemmeno il primo giorno dell’anno ed è evidente che siamo al cospetto di un movimento destinato a durare ancora a lungo. Un movimento civico che, tuttavia, deve stare molto attento, in quanto il loro auspicio di trovare una sponda nel presidente ameriano Donald Trump sembra essere naufragato al cospetto dei nuovi acordi commerciali annunciati dallo stesso Trump con la Cina di Xi Jinping. Non vorremmo che il nostro si fosse letto davvero, se non lui quanto meno i suoi più stretti collaboratori, il saggio di Graham Allison sul rischio tucidideo di un conflitto fra una potenza in declino e una in arrembante ascesa, nel caso specifico non Sparta e Atene ma, per l’appunto, gli Stati Uniti e la Cina.

Trump sa bene, infatti, che se vuole rafforzare le sue possibilità di ottenere un secondo mandato a novembre non può aprire tutti i fronti che la sua indole guerrafondaia gli suggerirebbe di aprire. Non può prendersela, al contempo, con l’Unione Europea, con l’Iran (con cui la tensione, dopo l’assassinio del generale Qasem Solemaini, è alle stelle) con la Corea del Nord e anche con la Cina: almeno un nemico è di troppo e diciamo che il nostro, saggiamente, ha sfilato dal mazzo il più potente e pericoloso. Non si tratta di una pace ma di una tregua armata e di comodo. Diciamo che la seconda Guerra fredda, come la definisce Federico Rampini nel suo nuovo saggio, non si è conclusa ma è stata solo rinviata, specie se a novembre il magnate newyorkese dovesse ottenere ciò che desidera ardentemente.

Nel mezzo, ci sono undici mesi e un popolo, quello hongkonghese, che, qualora l’accordo fra Trump e Xi Jinping dovesse andare in porto, potrebbe essere sacrificato sull’altare della realpolitik da due personaggi che non è proprio sull’etica e sul rispetto dei diritti umani che hanno costruito le rispettive fortune politiche. Qualora sul tavolo delle trattative fra Washington e Pechino dovesse essere stata posta anche la questione di Hong Kong, i termini potrebbero essere stati, più o meno, i seguenti: noi evitiamo di sferrare l’attacco definitivo alla supremazia americana (che tanto avverrà nel corso di questo decennio, è ineluttabile), voi, in comprenso, non muovete un dito in difesa della nostra spina nel fianco, consentendoci di sedare la rivolta, se necessario anche reprimendola nel sangue.

Non vorremmo sembrare eccessivamente maligni, ma conoscendo un po’ i due soggetti in questione la sensazione che la disinvoltura e il cinismo l’abbiano fatta da padroni è forte, come forte è il timore che le manifestazioni oceaniche di questi giorni potrebbero essere state le ultime, prima di una mattanza che finirebbe col sopire per un congruo periodo di tempo la questione. Il tempo necessario a Pechino per organizzarsi, rifarsi una verginità a livello internazionale e attendere: attendere le elezioni americane di novembre, consolidare le conquiste tecnologiche e industriali finora raggiunte e poi lanciarsi all’assalto, forti di uno strapotere sulla regione senza precedenti e di una sicurezza nei propri mezzi che solo una crisi con il colosso a stelle e strisce potrebbe, in qualche modo, mettere a repentaglio. E poiché è nota, diremmo quasi proverbiale, l’antica saggezza delle classi dirigenti del Dragone, non è assurdo ipotizzare che lo scambio reciproco di favori fra Trump e Xi comprenda, da un lato, l’aiuto implicito alla rielezione del primo e dall’altro lo spostamento dell’asse globale del potere dall’Atlantico al Pacifico, tutto a favore del secondo, con buona pace di un’Europa in preda a molteplici divisioni e a una crisi di nervi che rischia di condurla all’autodistruzione o, quanto meno, all’assoluta irrilevanza nel novero degli attori planetari.

Per quanto concerne Hong Kong, rischia di essere il classico vaso di coccio in mezzo a due vasi di ferro, con la concreta possibilità di farsi molto male e di assistere a una clamorosa regressione su ogni terreno, finendo addirittura col dover rimpiangere la stinta stagione dell’inadeguata Carrie Lam.


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