Antonio Varisco, quarant’anni dopo rimane l’interrogativo: perché proprio lui?

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Una storia con ancora troppe anomalie. Il 2019 da poco tramontato si è portato dietro anche la quarantennale commemorazione di Antonio Varisco, tenente colonnello dei Carabinieri presso il Tribunale di Roma, ucciso nella Capitale la mattina del 13 luglio 1979. Un delitto che seppur annoveri una verità giudiziaria – responsabilità delle Brigate Rosse e condanna, tra “Moro-bis” e “Moro-ter”, per i cinque componenti del commando omicida – si configura come una delle tante “morti sommerse” della storia d’Italia. Ovvero una di quelle vicende che, dopo un’inziale quanto inevitabile attenzione mediatica, è scivolata nell’oblio e vi è rimasta sebbene nei suoi cieli graviti più di un interrogativo. Che nel caso dell’ufficiale dalmata (era nato a Zara il 29 marzo 1927) sono frutto delle contraddittorie ricostruzioni brigatiste, di episodi mai chiariti e d’informazioni recentemente apprese.  

Varisco fu ucciso a pochi giorni dalla pensione e dal suo successivo trasferimento nel Nord Italia come responsabile della vigilanza per l’azienda farmaceutica Farmitalia-Carlo Erba. Possibile che i brigatisti, maestri del pedinamento e del reperimento informativo sulle loro vittime, non fossero a conoscenza di questo particolare? In aula prima dissero che ne erano all’oscuro salvo poi affermare che lo sapevano, ma non gli avevano dato credito. Preda di evidenti contrasti anche la decisione dell’operazione. L’inchiesta e l’eliminazione sono collocate quando dopo l’azione contro l’allora giornalista RAI Pierluigi Camilli, ammanettato dalle BR al cancello di casa con cartello al collo il 14 febbraio 1979, quando invece da compiersi entro la fine del 1978. Fumi anche sul movente. “Boia e torturatore” e “ce le ricordiamo impegnarsi personalmente nel pestaggio in aula delle compagne Maria Pia Vianale e Franca Salerno” fu scritto nel volantino di rivendicazione con la stella a cinque punte arrivato quattro giorni dopo l’assassinio. Se già la tempistica è insolita, la celerità brigatista lo voleva il giorno stesso, quelle accuse erano infondate: il colonnello era riconosciuto dagli imputati come personaggio corretto e rispettoso; e il processo ai NAP (Nuclei Armati Proletari) nei quali militavano anche le due donne, iniziato nel maggio 1979, come unico fatto di rilievo aveva registrato la revoca degli avvocati da parte degli imputati e il rinvio delle udienze a data da destinarsi. Quindi da dove nacquero le parole delle BR? Dall’ignoranza dei fatti? Dal pretesto per trovare una qualche giustificazione alla propria furia omicida? O da altro ancora?  

Davanti a un panorama così ombroso, è doveroso spostare l’attenzione sugli ultimi giorni del colonnello. Non si è mai saputo chi fosse l’uomo in abito scuro che l’11 luglio 1979, sceso da una Fiat 130 (al tempo auto ministeriale), chiese con insistenza al carabiniere Giuseppe Coderoni, in servizio presso la stazione di piazza del Popolo, se conoscesse il civico dell’abitazione di Varisco (situata a 400 metri, in via del Babuino) e se nei pressi vi fossero dei garage. Chi era quell’individuo? Perché tanto interesse? E perché rendersi così visibile per un’informazione ottenibile per vie molto più discrete? 

A questo punto lecito quindi chiedersi: chi era Antonio Varisco? Una domanda che durante le indagini, forse anche per l’illimitato credito goduto dalla sua figura dentro il palazzo di Giustizia, passò in secondo piano. Fisico atletico, bella presenza, era un personaggio versatile con ottimi contatti col mondo dell’arte, della magistratura, dell’avvocatura e delle ambasciate. Ma non solo. Era anche amico di Eugenio Cefis, uno degli uomini più importanti dell’economia italiana del periodo, presidente prima dell’ENI e poi della Montedison, che, secondo quanto dichiarò in dibattimento Cristina Nosella (ultima compagna di Varisco), affittava a prezzo simbolico al colonnello la sua casa di Sperlonga per le loro vacanze. E a conferma di questo consolidato rapporto, i due furono visti assieme in più di un’occasione nel cortile della “SNAM”, a S. Donato Milanese, alla metà degli anni Settanta. Un’informazione appresa di recente da fonte attendibile, che fa sorgere altri quesiti: quali erano la frequenza e le ragioni di quegli incontri? E uno di loro avvenne anche il giorno prima della sua morte, quando sappiamo con certezza che Varisco salì nel capoluogo lombardo? Oppure vi si diresse per altri motivi? 

Infine, l’ufficiale era anche tra le principali fonti del giornalista Mino Pecorelli e amico del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Pecorelli sulla sua rivista OP – Osservatore Politico diede molto spazio al “caso Moro” all’indomani dell’agguato di via Fani la mattina del 16 marzo 1978. Dove Varisco fu uno dei primi ad arrivare. Dalla Chiesa, invece, ideò il blitz che il 1° ottobre di quello stesso anno, a Milano, sgominò il covo brigatista di via Monte Nevoso, nel quale fu recuperata parte del “memoriale Moro”. Pecorelli fu ucciso pochi mesi prima di Varisco (20 marzo 1979), Dalla Chiesa qualche anno più tardi (3 settembre 1982). Soltanto una macabra coincidenza? 

Domande aperte, interrogativi irrisolti e tasselli mancanti per un mosaico che dopo quarant’anni, se si aspira a una verità storica, merita invece di essere definito. Una volta per tutte.


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