L’Italia si disgrega da Venezia a Taranto

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Da nord a sud l’Italia affonda. Forse Venezia si sarebbe salvata se ci fosse stato il Mose, il sistema di dighe mobili. Tremano la Serenissima e Taranto. Sembra quasi un male oscuro, ma oscuro non è. Cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico del territorio, crisi dell’industria: tutto contribuisce a rendere l’Italia un paese fragile, che rischia di andare in frantumi.

Martedì 12 novembre 2019 è un giorno da dimenticare per Venezia. L’acqua si è alzata di ben 187 centimetri sulla laguna, un record. Il Mare Adriatico ha invaso e devastato mezza città. Non è stata risparmiata nemmeno la basilica di San Marco, la chiesa e la cripta del patrono della Serenissima è stata sommersa da 120 centimetri di acqua salmastra. Mosaici, colonne, opere d’arte sono stati danneggiati. È stata messa in pericolo la stessa stabilità dell’antica basilica in stile bizantino.

Il procuratore della basilica di San Marco Pierpaolo Campostrin è sgomento: «È un’apocalisse». Ha aggiunto con un filo di sollievo: «Siamo stati a un pelo dal dissesto». Subito è scattata la mobilitazione. «È pazzesco» hanno sussurrato e gridato increduli i veneziani che immediatamente si sono messi al lavoro per salvare preziosi libri e capolavori. Con lena stanno  ripulendo dall’acqua chiese, alberghi, case, negozi e calli.

Giuseppe Conte è andato a Venezia: «Il governo è solidale e presente, nessuno resterà solo». Il presidente del Consiglio ha annunciato degli indennizzi «fino ad un limite di 5 mila euro per i privati e 20 mila per gli esercenti». Il governo ha deciso “lo stato di emergenza” per Venezia e per le zone del Veneto colpite dal maltempo. Per la Serenissima sono stati stanziati i primi 20 milioni di euro.

L’innalzamento continuo del mare per l’aumento delle temperature non è un mistero. Già nel lontano 1984 si decise di provvedere costruendo il Mose, il sistema di dighe mobile incaricato di salvare Venezia dall’innalzamento del mare. Ma il Mose, 5 miliardi e mezzo di costo, 78 paratoie, un baluardo in grado di reggere fino a 3 metri di acque alta, tra scandali e ritardi burocratici ancora non è pronto ma dovremmo essere vicini al traguardo. Conte lo ha confermato: per il Mose «siamo al 92-93% dell’opera», ci deve essere  il «completamento» dei lavori. L’opera dovrebbe essere operativa il 31 dicembre 2021, sperando nel frattempo nella clemenza del tempo e dell’Adriatico.

L’Italia è tutta “una emergenza”. Le strade di Matera di sono trasformate in fiumi per le piogge torrenziali, i temporali hanno causato una enorme voragine in una via di Napoli e due palazzi sono stati sgombrati per motivi di sicurezza.

A Taranto rischia la chiusura l’ex Ilva, la più grande acciaieria d’Europa. Il gruppo Arcelor Mittal ha annunciato di voler abbandonare l’impianto che aveva acquisito dopo un lungo periodo di gestione commissariale. Il punto centrale dei contrasti è la revoca dello scudo penale deciso del governo giallo-rosso su richiesta del M5S. Luigi Di Maio lo ha definito «un pretesto» della multinazionale franco indiana perché nell’ultimo anno è calata la richiesta di acciaio.

Probabilmente sarà anche «un pretesto», ma così si rischia di fornire «un pretesto» alla volontà di mollare tutto  con la conseguenza di perdere circa 15 mila posti tra lavoratori dipendenti ed indotto.  Sarebbe una sciagura per Taranto e il Sud già devastato dalla crisi economica. Secondo i calcoli del ‘Corriere della Sera’ l’Italia rischia di perdere 10 miliardi di euro tra danni (industriali, ambientali, occupazionali) e mancati investimenti per i quali si era impegnata l’Arcelor Mittal (oltre 4 miliardi tra ammodernamento degli impianti e bonifiche ambientali). In ogni caso sarà difficile trovare un nuovo acquirente perché il mancato rispetto di un punto importante del contratto di acquisizione rischia di far crescere la fuga degli investimenti da Taranto e da tutta Italia. Il nostro è un paese strano: è l’unica nazione occidentale che non riesce a conciliare lavoro e salute, industria e ambiente. Eppure le nuove tecnologie lo permettono e in Europa si fa.


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