Un fiocco viola, suo colore preferito, per ricordare Daphne. Senza dimenticare i giornalisti imbavagliati

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Il viola era il colore che più amava Daphne Caruana Galizia. Oggi, presentando il reportage da Malta realizzato da Sandro Ruotolo per Fanpage in occasione dei due anni dall’uccisione della giornalista maltese, è stato lanciato dallo stesso Ruotolo l’appello a listare con un fiocco viola i siti di informazione, della Federazione della stampa e delle associazioni che si occupano di libertà di stampa, come Articolo 21.
E’ noi ci siamo. Anzi, rilanciamo affiancando al ricordo per Dphne un pensiero ai tre giornalisti uccisi ieri in Siria dove erano al seguito di un convoglio umanitario che doveva prestare soccorso alla popolazione curda sotto attacco delle forze armate turche.
Senza dimenticare i tanti operatori dell’informazione che il presidente Recep Tayyip Erdogan, colui che ha sferrato la brutale aggressione ai curdi, ha imbavagliato e arrestato negli ultimi tre anni.
Dal 2016 l’onda giudiziaria voluta dal Sultano che non ha risparmiato nessuno. Una repressione, quella in atto in Turchia, continua a travolgere giornalisti che nessun’altra colpa hanno se non di fare il proprio mestiere.
Sono almeno 150 i giornalisti attualmente in carcere. Alcuni già condannati, altri in attesa di giudizio.
Per tutti loro l’accusa è di “propaganda terroristica” per aver partecipato all’azione di solidarietà per
il giornale nel mirino del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Come testimonia un recente rapporto di Amnesty International, la prolungata e crescente repressione nel Paese dal fallito colpo di stato del 15 luglio del 2016 ha pregiudicato il diritto a un’informazione libera, oltre al lavoro dei difensori dei diritti umani decimati dagli arresti favoriti dallo stato d’emergenza proclamato all’indomani del fallito golpe.
Quella che una volta era una vibrante e indipendente società civile è stata ridotta pressoché al silenzio dopo mesi di assoluto terrore: bastava avere installato un’App di messaggistica ritenuta ‘sospetta’ per finire in prigione. Anche oggi, nonostante l’apparente normalizzazione dopo le elezioni che hanno confermato Erdogan capo di Stato, continuano a susseguirsi arresti, intimidazioni e detenzioni arbitrarie.
Dietro il paravento delle leggi anti terrorismo, le autorità turche limitano azioni e iniziative della società civile che non rispondano ai criteri imposti dal regime che finora ha decretato la chiusura di decine di organizzazioni e creato un soffocante clima di paura.
Negli ultimi due anni e mezzo sono stati stroncati i diritti alla libertà d’espressione, alla sicurezza e all’equità dei processi e ha abbattuto l’ultimo baluardo tipico di una società in buona salute, ossia il lavoro dei difensori di diritti umani.
Divieti assoluti di svolgere raduni pubblici hanno pregiudicato il diritto di riunione e di manifestazione. Più di 107.000 dipendenti pubblici sono stati licenziati in modo sommario. Sono state aperte indagini penali nei confronti di oltre 100.000 persone e almeno 50.000 sono i detenuti in attesa di processo, centinaia già condannati all’ergastolo.
Tra questi un numero impressionante di giornalisti, molti volti autorevoli come lo scrittore di fama internazionale Ahmet Altan e la veterana della stampa turca Nazlı Ilıcak: entrambi stanno scontando il carcere a vita con l’accusa di “tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale”. In realtà erano semplicemente voci scomode, malgradite a Erdogan.

Altri quattro giornalisti, Demokras, Mustafa Armağan, İsmail Avcı, Bünyamin Aldı e Abdullah Dirican redattori del quotidiano di sinistra libertaria e filocurda Özgürlükçü, rischiano la stessa pena.

La magistratura, dopo aver autorizzato lo scorso anno la perquisizione della redazione e sequestrato copie del quotidiano e materiale vario nel blitz che ha portato al loro arrestato, insieme all’editore İhsan Yaşar, ha disposto la confisca del quotidiano e ha nominato un fiduciario.
Una vicenda che ricorda quanto avvenuto tre anni prima per un altro giornale, Zaman, prima passato sotto l’amministrazione controllata del governo e poi definitamente chiuso alcuni mesi dopo.

Anche in quel caso molti tra i redattori e i collaboratori della testata furono prelevati dalla polizia e portati in carcere con l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica.

Emblematico anche il caso di Ahmet Keskin, un avvocato per i diritti umani e editorialista per il giornale filo-curdo Özgür Gündem, chiuso sulla base del decreto governativo sullo stato di emergenza.
Una corte locale del distretto di Istanbul ha condannato Keskin a sei mesi di prigione per “aver insultato le istituzioni della Repubblica di Turchia” parlando di ‘deriva vergognosa’ commentando in un suo articolo le violazioni da parte del governo.
Ancora più gravi e paradossali le accuse rivolte a Esra Baysal, collaboratrice del portale T24, incriminata per “incitamento all’odio” dall’ufficio del procuratore capo di Diyarbakır per aver scritto in un tweet “I fascisti razzisti propagandano la guerra! Io sono contro la guerra, sono curda, sono una zingara, sono un’ebrea, sono un’araba, sono LGBT, sono armena, sono yazida… Insomma, io sono tutto quello che odi. Non seguirmi!”. Rischia un anno di carcere.
La Turchia, dunque, si conferma il più grande carcere per giornalisti del mondo. I dati più recenti della piattaforma di giornalismo P24 e dell’International press institute parlano di almeno 158 giornalisti detenuti, di cui 26 già in detenzione prima del tentativo di colpo di stato. Migliaia di altri operatori dell’informazione sono invece disoccupati dopo la chiusura di oltre 170 testate.

 

 


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