Le anime lesionate di François Ozon. ‘Grâce à Dieu’, distribuito da Academy Two

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Associato per la stessa tematica a Spotlight (2015) di Tom McCarthy, Grâce à Dieu di Ozon – vincitore dell’Orso d’Argento/Gran Premio della Giuria all’ultima Berlinale – se ne differenzia poiché racconta il flagello della pedofilia nella Chiesa Cattolica dal punto di vista delle vittime, occupandosi nello specifico dello scandalo degli abusi sui minori commessi fra il 1986 e il 1991 nella Diocesi di Lione da Padre Bernard Preynat, quando era cappellano degli scout.

Pur avendo scelto i personaggi fra gli aderenti dell’associazione La Parole Libérée – che negli anni si è dedicata alla pubblicazione, su un sito web, di lettere, mail, filmati, interviste, articoli su tutti i casi -, François Ozon ha rinunciato a realizzare un documentario, componendo intorno a queste anime lesionate  un film toccante, necessario, educativo, sincero, basato sui fatti realmente accaduti, cambiando talvolta i cognomi di alcune vittime, ma rimanendo fedele alla cruda verità delle loro testimonianze. Ozon opta per una struttura lineare, come se si trattasse di una corsa a staffetta tra scout ‘cresciuti’, in cui ogni partecipante/vittima aggiunge una variante: Alexandre, poi François e infine Emmanuel. Il film inizia con la visione, di spalle, di un prelato che avanza elevando il Ss. Sacramento per la benedizione eucaristica alla città di Lione, dall’alto della Basilica di Notre-Dame de Fourvière. Scopriremo in seguito che si tratta del cardinale Philippe Barbarin (ben interpretato da François Marthouret), coinvolto nella vicenda per l’«omessa denuncia dei maltrattamenti» di Padre Preynat.

Dopo la panoramica della città, ci ritroviamo, per mezzo di una dissolvenza incrociata, nel giugno del 2014 a casa di Alexandre Guérin, la prima vittima a denunciare gli abusi, dopo avere scoperto, per caso, che Padre Preynat è ritornato nella regione di Lione e lavora ancora a contatto con i bambini. Impersonato da Melvil Poupaud – che aveva già lavorato con Ozon in Le Temps qui reste (2005) – Alexandre si presenta attraverso una voce fuori campo: quarant’anni, sposato, padre di cinque figli, cattolico fervente. Tutta la prima parte del film è scandita dalla reiterata presentazione di lettere, mail, messaggi tra Alexandre e la Chiesa, utilizzando l’espediente non troppo originale ed eccessivamente insistito del voice-over. Il flusso continuo di parole, scollato dalle immagini che anticipano le azioni, crea talvolta confusione temporale e distoglie dalla narrazione tout court.

Un ruolo chiave, che fa da tramite per la risoluzione della questione, è quello di Régine Maire (Martine Erhel), la fredda e diplomatica psicologa, incaricata dalla chiesa di sostenere le vittime abusate, che sarà la testimone oculare del primo confronto tra Alexandre e Padre Preynat. L’attore Bernard Verley fa di Padre Preynat un ‘carnefice sacrificale’, un Giuda Iscariota, traditore e pentito, ormai indifeso e rassegnato, consapevole e vittima egli stesso della sua malattia e dei suoi errori e già incamminato verso l’espiazione. La preghiera di commiato, recitata insieme dai tre, tenendosi per mano in cerchio, è un momento di alta tensione emotiva.

Supportati dalle atmosfere musicali di Evegueni e Sacha Galperine, s’intersecano al racconto delle vittime già adulte brevi flashback allusivi, dove nulla viene mostrato esplicitamente: campeggi, tende, preghiere, falò, canti accompagnati dalla chitarra, camere oscure di labo photo illuminate da luce inattinica rossa, sagrestie. Ozon non ostenta nessuna violenza. Tutto sembra accolto da bambini innocenti, che si danno senza resistenza, considerandosi prescelti.

La corsa prosegue e, con un effetto domino, il testimone passa a un’altra vittima: François Debord. L’interprete, Denis Ménochet, lo rappresenta come il più combattivo, colui che vuole cambiare le cose, che non perdona, che non vuole dimenticare, e che soprattutto desidera rendere pubbliche le conseguenze dolorose degli abusi, denunciando anche il silenzio criminoso della Chiesa di fronte all’evidenza. Con l’aiuto di un’altra vittima, il chirurgo Gilles Perret (Eric Caravaca), François apre il sito internet dell’associazione La Parole Liberée, che sarà il punto di riferimento per tutte le vittime: il caso Preynat diventa un fenomeno mediatico.

L’ultimo a prendere il testimone – dopo quasi un’ora e mezza dall’inizio! – è la terza vittima: Emmanuel Thomassin, interpretato con visceralità da Swann Arlaud. Emmanuel è il più fragile tra i personaggi principali, colui che più ha accusato le molestie di Padre Preynat. Instabile, irrequieto, violento, complessato per il suo membro curvo, si definisce una “zebra”, “un animale troppo intelligente per adattarsi”. Non lavora, ha una relazione complicata con una ragazza anche lei abusata ed è soggetto a convulsioni epilettiche nei momenti in cui l’ansia lo stringe alla gola. Lo sport è la sua terapia e la sua speranza di una vita diversa. L’occasione di liberarsi dagli incubi dell’infanzia.

Attorno ai personaggi principali stanno ai margini della pista, in una zona liminale, altre vittime che scelgono di rimanere ‘anonime’, condividendo il loro trauma solo a distanza, al telefono; o altre, come Didier (Pierre Lottin), che si rifiuta brutalmente di denunciare, per non essere marchiato per tutta la vita quale ‘vittima di pedofilia’. Dall’altro lato, ci sono padri, madri, fratelli, mogli, figli, che a volte sostengono, e altre volte manifestano dubbi e dissensi – come il figlio di Alexandre, che nella scena finale gli chiede: «Credi ancora in Dio?».

Il film di Ozon è un thriller senza suspence, dove la tensione si sposta sulle conseguenze dei fatti accaduti più di vent’anni prima e ormai quasi prescritti (il 3 agosto 2018 il limite della prescrizione è stato portato da 20 a 30 anni, ndr). Tutto è detto e ammesso dal colpevole, l’orco Preynat. Persino il perdono e la redenzione, considerati valori distintivi della cristianità, non hanno più senso e smarriscono il loro effetto riparatore. Non si può più ‘lasciare aperta la porta ai peccatori’, non si può accettare il perdono, non si può perdonare, perché “sarebbe come diventare il suo prigioniero e la sua vittima per sempre”.

Il risentimento delle vittime non ricade soltanto sulla Chiesa, che per anni ha cercato di occultare i fatti, ma su tutti coloro – padri, madri, fratelli – che pur sapendo, o intuendo, hanno preferito rimuovere ciò che appariva inaudito. Gli unici sconfitti sono i bambini, non ascoltati e non capiti, manipolati atrocemente dalla ‘mala educazione’ dei grandi.

L’unico gesto suggerito da Ozon è quello di spezzare la catena del silenzio, dell’omertà, e vincere la paura e la vergogna di essere identificati soltanto come le vittime di un mostro. Da parte loro, la Chiesa e gli ‘adulti’ dovrebbero colmare anche la lacuna di un’educazione sessuale purtroppo assente che, se correttamente impartita, potrebbe aiutare a crescere più sereni prendendo contatto senza timori o vergogna con una parte primaria del nostro essere. Gli ambigui confessionali della religione e del moralismo ipocrita si svuotano, trasferendosi nei commissariati, là dove vengono raccolti con cura i particolari dei racconti intimi e colmi di pena di chi per un tempo troppo breve è stato bambino. La parola è finalmente liberata. Il Verbo offeso ha bisogno di imporsi, perché riaffiori tutto ciò che si è a lungo annidato nell’inconscio, fino a diventare un tarlo ossessivo.


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