Caro De Crescenzo, stammi felice 

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Stammi felice, caro ingegner De Crescenzo, con la tua Napoli colta e suggestiva, le tue battute impertinenti e speciali, la tua sublime ironia, la tua grandezza, il tuo pensiero sempre vispo, anche una volta raggiunta l’età della nostalgia, e il tuo stile sottile, sereno, sempre capace di castigare ridendo e di ridere castigando.
Addio a uno dei più grandi narratori contemporanei, alla voce limpida dell’altra Napoli, a un partenopeo verace e per nulla incline all’autocommiserazione, a un uomo perbene e pieno di iniziativa, in grado di far vivere nelle pagine dei suoi innumerevoli libri quello spirito guascone che purtroppo la città, tanto Napoli quanto Roma, suo secondo, smisurato amore, ha smarrito da tempo.
È incredibile come possano concentrarsi in così poco tempo tante tragedie: ieri Camilleri, oggi De Crescenzo e domani chissà chi altro, e non mi si venga a dire che avevano superato i novanta, che è fisiologico, che bisognava tenersi pronti perché non ci può mai rassegnare alla scomparsa dei miti, alla perdita dei punti di riferimento, alla dipartita dei maestri che, con le loro opere, hanno onorato e reso migliore l’Italia.

De Crescenzo, al pari di Camilleri, lascia dietro di sé una produzione sconfinata, il che un minimo attenua il rimpianto, ma guai a pensare che questo basti a non far sorgere dentro di noi il quesito su cosa accadrà adesso, su cosa ne sarà di noi, ora che siamo ancora più soli, ora che un altra voce arguta e combattiva si è spenta, ora che nei momenti topici non sapremo a quale Bellavista aggrapparci, quale filosofo greco citare, in chi credere, in chi sperare, cosa dire per contrastare la barbarie che rischia di sopraffarci.
Luciano De Crescenzo è stato l’antieroe per eccellenza, un saggio uscito direttamente dalle pagine di Omero, un personaggio degno della commedia greca, un discendente degli antichi simposi, trovatosi per caso a condividere con noi quest’amara stagione e passato indenne attraverso il fuoco del disincanto.
De Crescenzo aveva la lucidità dei savi e la pacatezza degli stoici, un tratto socratico e uno aristotelico, era un po’ Platone ma mai Eraclito perché in lui non c’era niente di oscuro o di incomprensibile. Era, al contrario, adamantino, di una tempra forte e allenata alla vita, coraggioso e sagace senza mai scadere nel cinismo. E ora che la “napolitudine” dovrà fare a meno di lui, ci sia concesso, quanto meno, di avere la certezza che si è spento serenamente, senza fare storie, anche perché lamentoso non lo era stato mai e i piagnoni (e nella Napoli contemporanea ce ne sono fin troppi) si era sempre divertito a irriderli con la sua penna magnifica.


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