Franco Zeffirelli  la preziosità della tradizione

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“Il sesso è qualcosa di maledetto, ci provoca sensi di colpa da levarci il sonno, dicono che sia anche veicolo di malattie, di infezioni, di morte, e che ci porterà diritti all’Inferno. Però, la materia di cui siamo fatti lo richiede, lo esige perentoriamente, implacabilmente, e tutti quelli che vivono su questa terra lo fanno; anche le ranocchie, i leoni e le formiche. Si salvano soltanto pochi anacoreti della Transilvania che poi, però, finiscono tutti pazzi.”

Così inizia il capitolo VI, intitolato Sesso: sesto senso, dell’autobiografia di Franco Zeffirelli uscita da Mondadori nel 2006, nelle cui pagine l’autore non nasconde nulla, e soprattutto racconta nei minimi dettagli la sua storia d’amore con Luchino Visconti, il suo creatore, il suo demiurgo:

“Si tolse dal taschino un fazzoletto imbevuto di un forte profumo che non conoscevo. Gli chiesi che profumo fosse. «Hammam Bouquet, lo fanno in Inghilterra, ti piace? Te ne manderò una bottiglia.» Passò il fazzoletto sotto le narici, col gesto di un innamorato.”

E fu colpo di fulmine, senza il quale, a giudizio di Zeffirelli, non esiste amore. Ma Anna Magnani, da buona romana senza peli sulla lingua, lo mise subito in guardia: “Tieni gli occhi sempre aperti. Anche se voglio bene a Luchino, so che è una serpe. Puoi raggiungere quello che di buono si tiene dentro, ma avrai bisogno di un cavatappi molto speciale.” E l’allusione volgare esplose nella nota risata strafottente.

La sua vita scorre tutta in quel libro, travolgente come un film ben congegnato.

Coco Chanel, contattata a Parigi tramite Visconti, lo prende in simpatia e gli regala dieci tavole di Matisse. Una risorsa preziosa per superare in seguito i non pochi periodi di grama, ma che egli, credendole riproduzioni, tornato a Roma attacca al muro con le puntine da disegno.

Nei magici Anni Sessanta l’appartamento è quello dei “fiorentini di Piazza di Spagna”:

“Veramente il nostro quinto piano non dava proprio sulla piazza, ma sulla trafficatissima via Due Macelli. A quell’altezza però, sotto il campanile di Sant’Andrea delle Fratte del Borromini, non si vedevano che i tetti, e di tetto in tetto potevamo praticamente arrivare fino alla scalinata di Trinità dei Monti.”  Insieme a lui c’erano Piero Tosi e Anna Anni, e il gruppo crebbe con Danilo Donati, emiliano di Luzzara, ma compagno dei primi due all’Istituto d’Arte di Firenze, “grande fucina di talenti”. E s’era aggiunto Mauro Bolognini, che veniva da Pistoia, il futuro regista de La Viaccia e di Metello.

Nell’indice dei nomi (oltre dieci pagine in appendice al testo) non manca proprio nessuno e la consultazione era stata febbrile per scoprire chi c’era e chi no, chi contava e chi meno. Una specie di catalogo crepitante di Who’s who (Chi è chi) a sorpresa.  Michelangelo Antonioni è appena un nome sperduto fra tanti. Fellini è citato in tre soli passaggi, e di lui viene ricordato unicamente il rapporto con Gustavo Rol, il mago di Torino che gli impedì di realizzare Il Viaggio di G. Mastorna presagendone la fatale negatività e salvandolo intanto “da un grave male che gli si era attorcigliato alle viscere”. Di Visconti si parla invece a lungo, amorosamente, con infinita gratitudine; e in tutta la prima parte la biografia è perfettamente sovrapponibile a quella stagione prodigiosa del dopoguerra in cui nel mondo dello spettacolo, cinema teatro melodramma, avvenne di tutto, con una concentrazione di talenti che oggi appare persino inverosimile.

Quel decennio fra il Cinquanta e Sessanta, nel quale l’Italia si trovò al centro del mondo, Maria Callas cantava alla Scala, ed era convinzione comune che il sublime fosse l’unica dimensione in cui incontrarsi. Al divino soprano, Zeffirelli dedicò il penultimo film Callas Forever, in cui la cantante è interpretata da Fanny Ardant. In quell’occasione lo intervistai per approfondire le intenzioni riposte dell’affabulazione maestosa, che era anche una indagine sottilmente psicologica sulla travagliata personalità della cantante:

“Maria nel film doveva apparire come tutti coloro che l’hanno amata la vogliono ricordare. Non ha importanza come lei sia stata veramente, non è il brutto anatroccolo, non è la donna grassa che il pubblico porta scolpita nel cuore; ma ciò che l’artista riusciva a diventare in palcoscenico, un miracolo di avvenenza. Basti pensare alla sua Norma: nessuna donna riuscirebbe ad essere più bella.”

L’eleganza era stata anche opera di Coco Chanel?

“Maria Callas aveva nel tempo imparato anche il gusto del vestire, a conoscere come valorizzare la propria persona, e con la frequentazione dei modelli di Chanel era diventata una donna splendidamente bien abillée”.

Zeffirelli era figlio ‘illegittimo’ nato da una relazione della madre adorata (la bellissima e vivace Alaide Carosi sposata Cipriani) con il ricco mercante di stoffe Ottorino Corsi, del quale il futuro scenografo e regista non volle mai prendere il nome. “Lo vedevo una volta alla settimana, il sabato generalmente, nel pomeriggio, ai giardini. Vestiva sempre alla moda, sapeva di acqua di colonia; non era più il bruto che violava mia madre. Però rimaneva la figura dell’aggressore, e io temevo quasi che potesse aggredire anche me come l’avevo visto fare con lei.”

Il piccolo Zeffirelli assiste spesso al gioco eccitante dei grandi, specialmente fra la zia Lide, “bella e affettuosissima” e il suo amante Gustavo “uomo atletico, molto attraente”.  I due si vedevano ogni giorno a pranzo, che consumavano in tutta fretta per andare subito a fare un ‘pisolino’. “Cominciai a domandarmi cosa facessero veramente dietro quella porta chiusa a chiave, e così praticai un buco per spiarli. Li guardavo affascinato, completamente nudi, e vedevo il membro di Gustavo – che era molto ben dotato – pronto per mettersi in azione. Lo vedevo penetrare mia zia con quell’affare pauroso, e da come si comportavano capii che la cosa dava a entrambi immenso piacere.”

E’ ragionevole supporre che il regista – e forse qualsiasi artista – nasca in quel modo, mettendo a fuoco ciò che accade da un pertugio, lo spiraglio dell’inquadratura.

I compagni di viaggio della sua esistenza sono tanti, ma i più importanti restano i ‘fiorentini’ dell’attico di via Due Macelli: su tutti Piero Tosi e Danilo Donati (“un genio che aveva brillato fin da quando era giovanissimo”), diventati entrambi leggendari costumisti. E  Umberto Tirelli (presto  titolare della più rinomata sartoria di cinema e teatro) che faceva parte del contingente ‘romagnolo’ e aveva salito “i nostri centodieci gradini per arrivare a salutare il suo amico Danilo”.

“Il nostro era un labirinto di stanze e soffitte, roventi d’estate e gelide d’inverno. Ma che importava? Avevamo una terrazza che volava sui tetti! Man mano che si guadagnava qualcosa, la si riempiva di piante e di fiori.”  E di tanti ospiti: “Il gioco del sesso, con le sue tante variazioni (ma sono poi davvero tante? Non ne son così sicuro), non era certo fuori legge lassù da noi. Bella gente, giovane, piena di vita.” Un corteo scintillante di bellone e belline, qualche ‘bono’ di passaggio, studenti e studentelli, marinai di Piombino e giovanissime soprano ancora un po’ ingessate.

Benedetto da una longevità da patriarca, si dissolve anche l’ultimo gigante del nostro cinema, scomparso ieri mattina a Roma a 96 anni. Regista instancabile di una serie interminabile di successi teatrali, è stato nel cinema autore di capolavori shakespeariani che nessun altro in Italia era capace di restituire con tanta grazia, con il suo gusto, la sua cultura, il suo innato talento per la messa in scena, lo sfarzo dei costumi, l’utilizzazione di meravigliosi attori anglosassoni guidati con perizia e raffinatezza. Zeffirelli era di certo il regista più proiettato verso lo showbusiness internazionale; e forse anche per questo era il più contrastato dalla cultura dominante a senso unico, che lo aveva eletto a simbolo della conservazione e del conformismo, senza perdere occasione di attaccarlo. Eppure Romeo and Juliet (1968), resta la più bella trasposizione cinematografica dell’immortale tragedia. La Bisbetica domata è a sua volta un traguardo prestigioso; e persino il Gesù di Nazareth (1977), tanto irriso alla sua uscita, è stato e resta la rappresentazione del Vangelo più amata dal grande pubblico, che la accoglie con immutabile entusiasmo ad ogni nuova riproposta.

Franco Zeffirelli (Firenze 12 febbraio 1923, Roma 15 giugno 2019) se ne va onusto di onori: Senatore della Repubblica Italiana e titolare di numerosi incarichi parlamentari nell’ambito della cultura, dei beni artistici, del territorio e dell’ambiente, Grand’Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, Medaglia d’oro ai benemeriti della Cultura; Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico per espressa volontà della regina Elisabetta II, Primetime Emmy Awards. Collezionista di tutti i possibili premi cinematografici sulla ribalta italiana e internazionale, ha conquistato con Romeo and Juliet anche il Premio Oscar per i costumi realizzati da Danilo Donati. E resta per molti il suo film più bello, il più puro e commovente. Jean Paul Gaultier, l’estroso stilista passato anche dalla Maison Hermès, parlando dell’influenza del cinema italiano sulla sua creatività, dichiara in un’intervista a Marie Claire: “C’è anche “Romeo e Giulietta” di Franco Zeffirelli che ho visto diciassette volte. Rubavo i soldi dal corsetto di mia nonna, in cui nascondeva il denaro”.

Riguardarlo sarebbe il più bel saluto all’artista, e servirebbe a ricompensarci della sua scomparsa. Il film è una visione balsamica che riattiva ogni nostro senso in allerta, ogni sentimento e umana pietà, ogni devozione all’emozione estetica e intellettuale.


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