“Regalo di Natale”, dal film di Pupi Avati: qualcosa da migliorare

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Lo spettacolo, prodotto da La Pirandelliana, di scena al Quirino di Roma e in ripresa autunnale

Non lo prescrive il medico, figurarsi il critico… Tuttavia chi si appresta ad assistere (non passivamente) all’edizione scenica di “Regalo di Natale”, curata da Sergio Pierattini e Marcello Cotugno (con l’esplicito plauso di Pupi Avati), farebbe bene a contestualizzare quel  bel film degli ottanta (e di essi emblematico, sintomatico) nella vasta gamma di ‘commedie italiane’ preposte a disarcionare il trito (tristo) postulato dei “buoni amici di sempre”, solidali e fraterni, premurosi e doviziosi seppur “poveri ma belli”.

Fandonie, inganni (premeditati), mistificazioni a cielo aperto. Perché? Perché i buoni-amici dello Stellone, specie se riuniti in comitiva, son sempre stati codardi e carogne. Risalendo, per lo meno, alla comune memoria de “I vitelloni” di Fellini,  “Leoni al sole” di Caprioli, “La rimpatriata” di Damiani e, primo fra tutti, quel piccolo-immenso capolavoro di Mario Monicelli e Pietro Germi, “Amici miei”, distillato in due atti (il terzo no) di rara perfidia e crudele  sentimento dell’umorismo “egoistico-scioperato” al cospetto del  livellante,  temutissimo presentimento di morte precoce.

Inevitabile infatti che è impossibile esternare alcun giudizio compiuto nei confronti dell’accadimento teatrale, prescindendo (e penso a sceneggiatori, coautori del calibro di Flaiano, Maccari, Age e Scarpelli, Tonino Guerra) dalla sedimentata ispirazione che credo abbia motivato, a suo tempo, il crudele, “goliardico” kammerspiel di Pupi Avati, al quale era ‘permesso’ avvalersi dei tanti flashback delucidativi (cosa accadde fra i quattro crapuloni  prima del macabro poker natalizio?) sui quali i film planava con la pulsione e l’impellenza di una catarsi incompiuta o tutta da ricominciare (come avvenne poi nel sequel della “Rivincita”).

Privilegio cui (salvo fosse stato, per assurdo, riscritto da Harold Pinter, in scientifico, audace rimescolamento di tempi e di luoghi) non può accedere l’esposizione drammaturgica di Cotugno e compagni, fissata, per necessità di cose, su una specie di ‘qui e adesso’ limitato alla pantografia della sinossi filmica, liddove – e per lo meno – all’edonismo fanfarone di trent’annni or sono, subentrano  disagi, piccole vergogne (a rivelarsi), farfugliamenti esistenziali (ed economici) intrinseci all’andazzo collettivo della Grande Depressione del Terzo Millennio.

Dove a farla da padrona, almeno nel primo atto è una stramba alchimia (istrionica, molto stiracchiata) fra il teatro fescennino di Vincenzo Salemme e un velleitario appiglio agli ambigui, tremebondi presagi della drammaturgia (allogena, inarrivabile) di Éric-Emmanuel Schmitt, specie nella sua capacità di raccontare “il banale e l’ordinario” stillando in essi l’insidia di un’allegoria  sospesa fra la minaccia e l’assurdo.  Risulato? Che “Regalo di Natale” sui praticabili del Quirino esalta, per tutto il primo atto, una sorta di one-show-man del siderale e mingherlino Giovanni Esposito (nel ruolo che, con cupa disperazione, fu di Alessandro Haber), bravissimo ed esperto nell’arte della pantomima, dei dialetti imitati (tranne il partenopeo) del tirarla per le lunghe, specie in una (incresciosa) sequenza: quella di non capire nemmeno a cannonate (e segni espliciti) che… uno dei quattro amici ha fatto outing ed ha “sbandierato” la propria omosessualità repressa. Transeat…?

A  rimettere in quota l’allestimento è, comunque, l’arrivo dello strambo visitatore (castigamatti), dimesso e di malferma salute, famigerato avvocato Sant’Elia (biscazziere professionista simulante  ingenuità, spennabilità  e ‘voluptas dolendi’), aggregato al ‘ricomposto’ quartetto    dall’amico più delinquente e spregiudicato (a pattuita tangente), “annodato” ad un altro (benestante per ‘meriti’ matrimoniali) per via di un remoto tradimento (d’amore) finito con la morte precoce, solitaria dell’ingenua (?) adultera, provvisoria consorte (in gioventù) di chi realmente la amava. Acqua passata? Non proprio. Dal momento che l’ingresso del Sant’Elia (l’ottimo, camaleontico Gigio Alberti, nel non facile ruolo che fu del sublime Carlo Delle Piane) provocherà una sorta di reazione a catena o provvisorio gioco al massacro, di cui le fiches e il (roteante) tavolo verde – con spettrale alberello sullo sfondo traslucido – saranno blandi,  esornativi elementi scenografici.

Sinchè la partita avrà fine e nessuno dei “regali” che la serata annunciava troverà destinatario. Sedimentandosi, però,  un sentimento squisitamente onirico, illusionistico, moralmente didascalico che avvolgerà  il secondo atto in una sorta di limbo irreale, favolistico, persino metafisico capace di riscattare lungaggini e insipienza di tutta la prima parte. La quale, appena sforbiciata e accorpata in un solo tempo, darebbe luogo ad una messinscena dignitosissima, scorrevole e di buon spessore antinaturalista (nelle irrinunciabili apparenze della commedia di “omaggio e intrattenimento”).

 

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“Regalo di Natale” di Pupi Avati
adattamento teatrale Sergio Pierattini
regia Marcello Cotugno

Con Gigio Alberti, Filippo Dini, Giovanni Esposito, Gennaro De Biase, Valerio Santoro

scenografie Luigi Ferrigno
costumi Alessandro Lai
luci Pasquale Mari  – Prodotto da “La Pirandelliana”-  Roma, Teatro Quirino      In ripresa dal prossimo autunno


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