Rohingya, 1.200.000 dimenticati

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Le capanne di bambù sono state coperte con teli di plastica; una strada lastricata con i mattoni attraversa il “mega-camp” (l’estensione dei campi di Kutupalong, Tankhali, Balukhali); ci si prepara ai monsoni consolidando i fianchi delle colline disboscate all’arrivo dei profughi per costruire le prime baracche; le latrine sono state finalmente separate dai pozzi, gli insediamenti sono stati divisi in sotto campi e blocchi, sotto stretto controllo delle autorità governative; le file per la distribuzione del cibo stanno scomparendo a favore di negozi dove usare delle carte prepagate (eVoucher).
In estrema sintesi, la crisi dei rohingya – oltre 700mila profughi arrivati dal Myanmar in Bangladesh – come un malato ha lasciato la fase acuta per diventare un’emergenza cronica, di quelle che non sai mai quando finiranno.

Quasi due anni dopo l’inizio della crisi (l’esodo si consumo in poche settimane dalla fine dell’agosto 2018) sono tornato nel sud del Bangladesh, in quell’area – Cox’s Bazar – che attira i bengalesi benestanti per le vacanze al mare e si prepara a richiamare turisti anche dall’estero.
A pochi chilometri da una delle spiagge più lunghe del mondo dove abbondano le noci di cocco e dove le nuka – le tipiche barche a doppia punta dei pescatori locali – tornano cariche di crostacei, c’è il campo profughi più grande del mondo: ci vivono oltre 600mila persone – grande almeno 4 volte la città dove sono nato.
Altrettante (400mila secondo altri conteggi più conservativi) vivono in campi nella zona di Teknaf, lungo il fiume che segna il confine con l’ex-Birmania.

Che siano 1.200.000 oppure 1.000.000 poco cambia, è una marea umana di dimenticati. Il loro destino sembra non interessare a nessuno eppure – guardando agli Stati Uniti e all’Europa – il tema delle migrazioni è diventato un’ossessione mediatica e politica. Perchè i rohingya sono ignorati? Le spiegazioni potrebbero essere varie, almeno a livello ipotetico: Perchè sono ospitati da un Paese che ha poco peso sulla scena internazionale e che si è prodigato (almeno sin’ora) per ospitarli? Perchè sono lontani e quindi possono essere ignorati come, per esempio, accade con il conflitto afghano; Perchè sono mussulmani cacciati dalla pulizia etnica del fanatismo buddista quindi non rispondono alla narrativa dominante e non confermano l’attuale algebra della paura?

Nei giorni scorsi il Bangladesh ha annunciato che non può più accogliere profughi, una tale massa di persone – in un’area grande poche decine di chilometri quadrati – sta diventando una fonte di tensione che si aggiunge a quelle già in atto nella politica locale.
Da un lato si temono tensioni con la popolazione locale (una “guerra” tra poveri) dall’altro, si stanno moltiplicando segni di attività dell’Arsa (le minuscole forze ribelli dei rohingya) nei campi che potrebbero essere usati come basi per attacchi oltre-frontiera, infine in un Paese già scosso dall’estremismo la paura è che in questa massa di scontento possano fare reclutamento organizzazioni terroriste.
Del resto è una naturale fonte di preoccupazione una marea di persone – per lo più giovani – la cui vita è letteralmente sospesa, persone senza futuro che non possono uscire dai campi, lavorare o andare nelle scuole; tutt’intorno un Paese già di per se povero. Le tensioni con il Myanmar, pur ben nascoste, stanno montando perchè, subito dopo la crisi, l’ex-Birmania si è impegnata a rimpatriare i rohingya ma le organizzazioni internazionali sanno benissimo che riportarli indietro significherebbe candidarli a campi di concentramento, nella migliore delle ipotesi. L’idea – avanzata l’anno scorso – di aree protette dall’Onu nel Rakhine, la regione birmana dov’è avvenuta la pulizia etnica, è finita ad alimentare la foschia dei giorni più caldi lungo il golfo del Bengala.

Di soluzioni definitive non se ne vedono. Intanto nonostante la contrarietà di rifugiati e di organizzazioni umanitarie, il governo si prepara a trasferire 100.000 Rohingya su un’isola più a nord isolata in mezzo al mare (sin’ora servita solo al bestiame) per ridurre la pressione sui campi di Cox’s Bazar. Il mondo ha lasciato soli i rohingya, assieme a loro ha abbandonato il Bangladesh. Ora più che mai ci sarebbe bisogno della diplomazia, quella che era servita per avviare l’apparente transizione dell’ex-Birmania verso la democrazia ed aprirla agli investimenti stranieri.


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