Raccontare la guerra non conviene? Ne siete sicuri?

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E’ sempre più difficile raccontare le guerre e più in generale le crisi tanto che, nel giornalismo, abbiamo inventato l’infelice categoria delle “crisi dimenticate” una sorta di malato incurabile che si lascia lì a morire o in attesa che guarisca da solo. Di questo abbiamo parlato nella sala della filarmonica di Trento, sabato 8 settembre, durante il 17mo Incontro Nazionale di Emergency. Sul palco con me c’erano Francesca Mannocchi e Alessio Romenzio, autori – tra le altre cose – di un bellissimo documentario appena presentato al festival del cinema di Venezia: “ISIS Tomorrow: the lost souls of Mosul” (qui per un’anteprima).
Raccontare le guerre e le crisi è sempre più difficile per la crisi di risorse del giornalismo (italiano e mondiale) come scrive Sammy Ketz dell’AFP nella sua lettera aperta al Parlamento Europeo (qui il testo integrale, tradotto in Italiano): Siamo diventati bersagli e le nostre missioni costano sempre di più. Sono finiti i giorni in cui si andava in guerra in giacca, o in maniche di camicia, una carta d’identità in tasca, accanto al fotografo o al videomaker. Oggi c’è bisogno di giubbotti antiproiettile, auto blindate, a volte di guardie del corpo e assicurazioni per evitare di essere rapiti. Chi paga queste spese? I media, ed è un costo pesante.
L’Italia ha però una sua infelice peculiarità che è più antica di questa crisi: ama guardarsi l’ombelico, forse anche per via dell’assenza ultra-decennale di una linea di politica estera. In altre parole, pur in un mondo globalizzato, domina un provincialismo che porta sempre a considerare i fatti lontani come una sorta di fastidiosa incombenza di cui, di tanto in tanto, non si può fare a meno.
A ciò va aggiunta la furbizia politica, il “rimuovere” (lo si è fatto con la missione afghana) per non fare i conti con le proprie responsabilità politiche e i propri errori.

Non raccontare la guerra è un grave errore perché ci impedisce di prevenirla e ci impedisce di prepararci ad affrontare (anche solo culturalmente) quei problemi che, in un mondo globalizzato, difficilmente restano confinati nelle aree remote che li generano e quasi sempre vengono poi a bussare alle nostre porte. In questo il silenzio dei media è particolarmente grave.

A volerlo guardare da un altro punto di vista, l’evento di Emergency a Trento ha dimostrato anche quante responsabilità ci siano nella categoria dei giornalisti rispetto a questo “oblio”. La nostra categoria continua ad arrogarsi la capacità di capire cosa interessi di più e cosa non interessi affatto alla gente. Quasi sempre sbaglia, quasi sempre – in questa “selezione” – ha ragione quando pone l’asticella rasoterra con video “virali” e altre amenità acchiappa-click.
A Trento abbiamo visto sale stracolme, persone mandate via causa “esaurimento posti”, file lunghissime per assistere a dibattiti sui rifugiati, le migrazioni, le guerre e via dicendo. Salvo che nel concerto di chiusura, sabato sera, sul palco non c’erano rock-pop-star ma professori, volontari, cooperanti, giornalisti, attori e nessuno cercava la facile battuta, la “spallina” galeotta, il colpo di teatro per tenere “sveglia” la gente in sala fino alla campanella finale. Qualcuno dirà che era un pubblico speciale, selezionato, fuori dal normale ma farebbe un torto alle tante persone venute alla Filarmonica, al Teatro Sociale, all’Auditorium Santa Chiara per la voglia di capire e di informarsi. La certificazione che i media italiani nell’ignorare le questioni estere e nell’alimentare la categoria delle crisi dimenticate non fanno solo un danno alla nostra società ma fanno anche un danno a loro stessi e al proprio seguito. Dove arriveremo a furia di imbottire i nostri giornali di dichiarazioni di salvi-maio e della finta opposizione? Sicuramente allo stato catatonico dei lettori quindi alla fine dei giornali. Ma sicuramente mi sbaglio, sono il solito pessimista.


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