Trump e il diritto delle donne iraniane di ballare

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Giovani, ribelli, preferibilmente belle, meglio ancora se sexy. Sono le donne iraniane che si affacciano sempre più spesso sui media italiani, mentre combattono le loro  battaglie contro l’obbligo del velo e il diritto di vestire come vogliono o di danzare in pubblico. Sono singole donne coraggiose la cui protesta passerebbe però quasi inosservata, se la loro immagine non si moltiplicasse all’infinito su Istagram e Twitter, non venisse rilanciata dalle organizzazioni per i diritti umani e gli organi di informazione non si rincorressero fra loro nel raccontarne le storie e pubblicare le foto più accattivanti.

L’ultimo caso è quello di Maedeh Hojabri, arrestata perché apparsa in 300 video sul suo profilo Istagram mentre ballava, in abiti aderenti, per i suoi 600 mila followers. Ancora un paio di giorni dopo l’uscita della notizia, il motore di ricerca di Google news in italiano le faceva ancora occupare i primi quattro posti: insidiata solo da un paio di pezzi sugli esiti del vertice di Vienna in cui l’Europa, insieme a Mosca e Pechino,  ha cercato ancora una volta di rassicurare Teheran sulla propria volontà di tener fede all’accordo nucleare del 2015,  anche dopo l’uscita unilaterale degli Usa dell’8 maggio scorso. Un incontro, quello di Vienna, di non scarso rilievo per l’Italia e l’Europa: la tenuta dell’accordo, nonostante il ripristino delle sanzioni Usa e la volontà di Trump di mettere in ginocchio l’economia iraniana, è destinata infatti a pesare non solo sulla nostra stessa economia, ma anche sulla stabilità dell’intero Medio Oriente e dunque sulla nostra sicurezza.

Ma di questo poco si è parlato sulla maggior parte dei media italiani, che appunto privilegiano notizie di facile consumo come quelle sui diritti negati delle iraniane. Le quali, da parte loro, non aspettano certo  le concessioni di un giovane e benevole riformatore come quello che si prepara a guidare la monarchia saudita: un regno dove le attiviste per i diritti delle donne finiscono ugualmente in carcere e ci si reca alle urne solo per le elezioni locali, mentre le iraniane che lottano da quarant’anni per strappare le loro conquiste lo fanno in una Repubblica, islamica, dove vengono periodicamente eletti, a suffragio universale, parlamento e presidente.

Eppure è proprio l’illiberale regno wahabita che l’amministrazione Usa considera uno dei due pilastri, insieme a Israele, della sua dichiarata offensiva anti-iraniana, più o meno esplicitamente mirata ad un ‘regime change’ a Teheran. E per farlo non esita di fronte  ad un uso strumentale non solo delle proteste di strada di questi ultimi mesi in Iran, dove le rivendicazioni economiche si sono spesso tradotte in slogan anti-sistema, ma anche delle stesse rivendicazioni delle donne. A denunciarlo sul New Yorker la giornalista e scrittrice Azadeh Moaveni, in un pezzo intitolato ‘Come l’amministrazione Trump sta sfruttano il crescente movimento femminista iraniano’ ( https://www.newyorker.com/news/news-desk/how-the-trump-administration-is-exploiting-irans-burgeoning-feminist-movement).

Se le GirlsofRevolutionStreet, le ragazze che sventolavano il velo sul viale della Rivoluzione, erano entrate nell’Olimpo degli eroi sui social, l’amministrazione Trump ha fatto uso di quella causa – spiega l’autrice di ‘Lipstick Jihad’ e ‘Viaggio di nozze a Teheran’ – “come parte della sua campagna per isolare la Repubblica Islamica  e promuovere un cambio di regime a Teheran”. Tanto da trasformare il segretario di stato Mike Pompeo,  almeno sul suo account Twitter, in un paladino dei diritti delle iraniane.

Quelle stesse che,  per l’alto grado di istruzione e competenze lavorative spesso superiori rispetto ai loro coetanei uomini, sono la parte più avanzata delle classi medie in Iran. Le donne infatti sono il 60% circa della popolazione universitaria e la maggioranza tra i laureati, scelgono spesso materie tecnico-scientifiche come l’ingegneria ed eccellono nel lavoro e nelle professioni, ma faticano di più a trovare occupazione rispetto agli uomini e trovano ostacoli nell’accedere ai gradi direttivi del tutto simile a quel ‘soffitto di cristallo’ che affligge tante donne anche in Occidente. Proprio per le loro competenze sarebbero però destinate a fare da motore  di quella crescita della economia che l’Iran si attendeva dal ‘nuclear deal’: un’economia che pur si deve misurare con le proprie interne, serie disfunzioni e con le difficoltà a crescere del settore privato rispetto ai potentati gestiti dalle fondazioni religiose e dai Pasdaran, ma di cui il governo Rouhani si era proposto di avviare una graduale riforma e liberalizzazione. E che comunque resta ora bloccata proprio per la scelta di Trump di uscire dall’accordo, di ostacolare gli investimenti europei in Iran e bloccare il suo export di petrolio. Facendo così crollare le speranze di tanti iraniani che attendevano di uscire da decenni di sanzioni per vivere in un Paese in pace con il mondo e finalmente “normale” , ma soprattutto quelle di tante giovani donne che puntavano su una maggiore emancipazione economica con il lavoro e, sul piano politico, su un prevalere delle spinte per le riforme anche nelle norme che le penalizzano.

E’ dunque proprio la politica statunitense il principale, anche se non l’unico, fattore della crisi economica e sociale in atto in Iran, e dalla quale figure vicine all’amministrazione Trump  sperano dichiaratamente di vedere uscire  un cambio di regime spinto dal malcontento popolare: intento per il quale, secondo fonti giornalistiche israeliane, gli Usa e Israele avrebbero approntato una vera e propria ‘task force’ che favorisse le proteste in corso da mesi nel Paese. E’ in questo contesto che le ribellioni delle donne, che siano contro il velo o contro il divieto di ballare in pubblico,  hanno assunto una forza e una visibilità particolari. Sarebbe bene ricordarsene, quando dai ‘social’ rimbalzerà in redazione il prossimo caso.    ​


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