Trump da imprevedibile diventa inaffidabile

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Dietrofront. Donald Trump ha mandato al macero velocemente le strette di mano, i sorrisi, gli ammiccamenti d’intesa con Vladimir Putin. Il pieno accordo proclamato al vertice di Helsinki dal presidente americano con il collega russo è svanito in appena 24 ore. Nell’incontro di lunedì 16 luglio nella capitale finlandese aveva dato ragione a Putin e torto ai magistrati e ai servizi segreti statunitensi: nessuna interferenza del Cremlino nella campagna elettorale americana del 2016, per sostenere lui contro la democratica Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca.

La marcia indietro del presidente americano, appena tornato a Washington, è stata improvvisa e netta: «Intendevo dire il contrario». Dalla Casa Bianca ha annunciato di «voler fare una precisazione» perché era stato frainteso al summit di Helsinki. Ha aggiunto: «Ho piena fiducia e sostegno nell’intelligence degli Stati Uniti» e «accetto» le conclusioni dei servizi segreti sulle ingerenze russe nelle elezioni presidenziali. Comunque ha ribadito: «Non c’è stata nessuna collusione» con la sua campagna elettorale.

Trump ha capovolto le posizioni espresse ad Helsinki con un acrobatico triplo salto mortale politico. Nella conferenza stampa seguita al vertice con Putin aveva attaccato e scaricato il procuratore speciale Robert Mueller: l’inchiesta «è un disastro per il nostro Paese». Quindi aveva criticato pesantemente l’Fbi e la «corrotta Hillary Clinton», la sua ex avversaria. Aveva martellato: «Io neanche conoscevo Putin. Nessuna collusione». Complimenti a scena aperta, invece, per l’uomo forte del Cremlino: «È bello essere qui con te». E si era augurato una «relazione straordinaria» con l’uomo che governa da venti anni la Russia con un pugno di ferro senza tanti riguardi per le opposizioni e i giornalisti. Aveva appoggiato Vladimir Putin che aveva smentito tutte le accuse di ingerenza e si era solo limitato ad ammettere di aver parteggiato per l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca «perché aveva parlato di normalizzare le nostre relazioni» a differenza di Hillary Clinton.

Il Russiagate, cioè le indagini sull’ipotesi di collusione tra il Cremlino e il comitato elettorale del miliardario americano, è un brutto problema sia per Trump sia per Putin: il primo rischia di restare politicamente azzoppato, il secondo di rimanere sfigurato come un autocrate che regna con le spie. Il procuratore speciale Mueller, ex capo dell’Fbi, ha incriminato 12 agenti del servizio segreto militare russo per aver organizzato e gestito l’hackeraggio dei computer del Comitato nazionale democratico durante la campagna presidenziale del 2016. Nell’operazione è coinvolta, questa è l’ultima novità, anche un’altra funzionaria russa “infiltrata” nel voto di due anni fa, Maria Butina.

Trump, appena rientrato in patria, ha dovuto fare i conti con una gigantesca ondata di critiche corali: dai repubblicani (il suo stesso partito) ai democratici, dagli uffici federali ai giornali. Paul Ryan, speaker repubblicano della Camera, era impietoso: «Non ci sono dubbi che la Russia abbia interferito nella campagna elettorale». Il leader dei democratici al Senato Chuck Schumer attaccava: «Ha creduto al Kgb e non alla Cia». John Brennan, capo della Cia all’epoca del presidente Obama, accusava: è «poco meno di un tradimento…È totalmente succube di Putin».

Trump ha cercato di rompere l’assedio nel quale si era cacciato. Adesso c’è tutta una politica da rivedere. È singolare che Trump attacchi i tradizionali alleati occidentali del G7, della Nato e dell’Unione europea difendendo i governi e i movimenti populisti e vada a braccetto con Mosca, la super potenza antagonista da sempre degli Stati Uniti d’America. È singolare che capovolga le fondamentali scelte della politica estera americana degli ultimi 70 anni basate sull’alleanza e la cooperazione con la Ue, il Regno Unito, il Giappone, la Corea del Sud e il Canada.

L’intesa privilegiata tra Trump e Putin, i due leader populisti e sovranisti affezionati ai toni e alle azioni forti, è durata poco. Il miliardario americano segue un motto: «Voglio essere imprevedibile». Ma questa volta il presidente americano, l’anti Barack Obama, rischia di passare da imprevedibile a inaffidabile sia agli occhi dei vecchi alleati, sia a quelli dei nuovi amici e dei nemici. Il quadro non è confortante.

Adesso sarà arduo affrontare il 25 luglio il vertice a Washington con il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker sui dazi americani imposti alla Ue. Juncker arriverà vittorioso sulle ali dell’accordo del 17 luglio con il Giappone, che azzera o riduce progressivamente i dazi tra Bruxelles e Tokio. Juncker viaggia in rotta di collisione con Trump: «Non c’è protezione nel protezionismo».


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