Il cinema Fulgor – riapre a Rimini la sala amata da Fellini

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Del Cinema Fulgor Fellini aveva parlato nel film Roma, rievocando in una “scena primaria” di sapore psicanalitico il suo imprinting per lo schermo. A cinque anni, seduto sulle ginocchia del padre, aveva assistito, rapito, alle immagini di un’opulenta Messalina che con bramosi occhi bistrati decretava la vita o la morte di muscolosi  gladiatori. Erano quadri in bianco e nero venati di ferocia e di torbido erotismo: conturbanti per un bambino di quell’età.

Il giorno in cui il regista girò la sequenza ero accanto a lui, ma avevo ancora scarsa familiarità con i movimenti di macchina, con l’impostazione delle luci ad effetto, con il trucco pesante adottato dall’attrice per apparire una crudele e seducente divoratrice di uomini. Ma quando vidi il risultato in proiezione, mi parve di comprendere l’essenza stessa del cinema, il suo segreto più riposto. Fellini, da accorto artista figurativo, aveva restituito in quelle inquadrature angolate dal basso lo sguardo impaurito e ammaliato di un fanciullo di fronte a una realtà gigantesca, attraente e minacciosa. Se la citazione del film muto fosse stata girata in asse, non sarebbe mai riuscita a imprigionare nei fotogrammi quella carica emotiva così precisa e indispensabile alla chiave del racconto.

Per la cronaca il film al quale  l’artista riminese fa risalire la sua proto memoria di cinema (anche questa abilmente manipolata) è intitolato Maciste all’Inferno: un polpettone storico della Cine Pittaluga diretto da Guido Brignone nel 1925.

Dalla leggenda approdiamo alla realtà. La mitica sala cinematografica posta al n.162 del Corso di Augusto, costruita nei primi anni Venti in un blando stile floreale già ibridato al nuovo gusto razionalista, risorge a Rimini dopo essere rimasta al buio per decenni. L’evento si annuncia, giustamente, come la riapertura di un sacrario e infatti avrà luogo sabato 20 gennaio, compleanno di Federico Fellini, quale primo atto delle celebrazioni ufficiali programmate per il centenario nel 2020.

Un avvenimento storico, considerando la lunga gestazione durata oltre quaranta anni, se si risale al primo incarico assegnato nel 1973! Ma adesso il Comune di Rimini e il suo sindaco Andrea Gnassi, sono a un passo dal traguardo. L’opera è stata realizzata dall’architetto Annio Maria Matteini che ha ristrutturato da cima a fondo il Palazzo Valloni moltiplicandone la cubatura, ricavando un’ulteriore superficie praticabile nel sottotetto (con eccellente vista sulla città), e  disponendo sapientemente gli spazi per le molteplici attività che verranno ospitate dalla struttura: archivi, cineteca, biblioteca, postazioni video, aree espositive e para museali, uffici, sale riunioni e di rappresentanza.  In ogni piano domina un’ariosa impostazione da openspace, assai gradevole e accogliente. Con una cura particolare all’atrio, rivestito in lussuosa boiserie effetto radica, con al centro la scala monumentale che conduce al piano nobile: sinuosa e avvolgente – confessa il progettista – in aperta allusione alle curve della Gradisca. Lei sì, arcana presenza e vera musa di tanta trasformazione.

La seconda volta che Fellini racconta il ‘suo’ Fulgor, è in Amarcord, con un indimenticabile flashback. Un pomeriggio estivo, nel deserto canicolare della città, il giovane protagonista Titta scorge la Gradisca, spasmodicamente desiderata,  che sta entrando nel cinema per vedere “La valle dell’amore” con Gary Cooper (film mai esistito nonostante il manifesto; quel poco che si intravvede riconduce piuttosto al romanticissimo “Marocco”). Abbandona precipitosamente la bicicletta e si infila anche lui nell’androne. In platea non ci sono altri spettatori, soltanto lei, che languidamente fuma una sigaretta assorbita dalle immagini dello schermo. Titta vorrebbe sederlesi accanto, ma non trova il coraggio, e sceglie una tattica di avvicinamento progressivo, guadagnando tre o quattro poltrone alla volta. Alla fine le è di fianco, ma lei quasi non se ne accorge, non lo degna di uno sguardo. Con il cuore in tumulto e vincendo la paralizzante timidezza il ragazzo allunga una mano sulla coscia del suo sogno proibito. La maliarda si riscuote impercettibilmente, abbassa per un attimo gli occhi su quel gesto importuno, e lo apostrofa distaccata: “Cosa cerchi?” L’avventura naufraga rovinosamente in quelle poche parole. “Son rimasto come un patacca, – commenta fuori campo la voce narrante – mi volevo buttar giù nel porto!” Un’educazione sentimentale raccontata con quattro impareggiabili pennellate da maestro, così semplici da lasciare incantati.

Titta, come ben sanno i felliniani, era il Grosso, il compagno di scuola più amato dal regista adolescente. Era il figlio del capomastro Aurelio, che avrebbe studiato legge e sarebbe diventato l’avvocato Luigi Benzi, penalista. Un’amicizia che tra i due si interruppe solo con la morte. Era Titta a raccontare che, divenuto un po’ più grandicello e avendo un incoercibile talento per il disegno, Federico sostava fuori del cinema Fulgor a osservare i personaggi dei manifesti, che poi ritraeva caricaturandoli; in maniera così estrosa che le sue opere venivano esposte nell’atrio e il proprietario (che si pavoneggiava di assomigliare a Ronald Colman) aveva concesso al giovane  artista di entrare gratuitamente agli spettacoli. Prende dunque forma al cinema di Corso d’Augusto la predestinazione del futuro regista, battesimo  cresima ed eucarestia. E a quella sala l’autore torna idealmente nel secondo film della sua carriera, il più struggente e sentimentale, I Vitelloni. Fausto (Franco Fabrizi) novello sposo ma irriducibile farfallone, seduto in platea con accanto la sua innamoratissima Sandra, si lascia adescare da una signora provocante al suo fianco. Azzarda il piedino, e quando l’altra si alza guadagnando l’uscita, lui la segue improvvisando una scusa. La abborda per strada e si intrufola dietro di lei nell’androne di un portone dove, alzandole la veletta, la bacia con passione corrisposta. Intanto il film è finito, Sandrina attende ansiosa sul marciapiede, non sapendo cosa possa essergli successo. Finché Fausto, ripulendosi col fazzoletto  le tracce di rossetto, riappare come nulla fosse, riuscendo con la sua faccia tosta a rabbonirla con una balla  inventata al momento. Dunque il Fulgor è il luogo del peccato, identificato come tale fin dalle prime pulsioni infantili scatenate dalla lussuriosa matrona romana. Le donne e il cinema, nella doppia accezione di sala da proiezione e di ambiente di lavoro, rappresentano un binomio inscindibile. Federico canzonava il suo amico Franco Rosi: “Ma cosa giri a fare i film se poi non ci metti le donne?”

In Intervista, al giovane giornalista con il brufolo sul naso (Sergio Rubini) che va a intervistare la diva dei suoi turbamenti, il mondo del cinema si rivela simile a un’alcova di eterna perdizione.

Come per gli eccelsi artisti della pittura, ciò che appare sulla superficie della tela è soltanto il primo strato di altri e molteplici sottotesti. Indagarne la profondità ci svela la complessa unicità dell’opera. Il Fulgor che riapre i battenti ci offre dunque un ulteriore spiraglio di ricognizione nella poetica di Fellini. E che ora quel luogo simbolico diventi anche un centro di cultura destinato allo studio dei suoi film, mi sembra la più gloriosa notizia del 2018. Federico torna finalmente a casa.

Nella pregevole ristrutturazione operata da Annio M. Matteini, vengono previste due sale di proiezione, una più piccola per convegni e seminari, l’altra spaziosa e sognante, attrezzata per la regolare programmazione, ma anche concepita come una sorta di tempio felliniano adatto ad ospitare eventi di alto livello spettacolare. L’ideazione di questo sacello è stata affidata – e a chi altri? – allo scenografo Dante Ferretti, pluridecorato Premio Oscar, che iniziò a lavorare accanto all’artista riminese fin dai tempi di Satyricon (1969), diventandone in seguito il più assiduo collaboratore per le scene. Una posizione di prestigio che gli ha spalancato le porte delle produzioni internazionali, erigendolo a beniamino dell’industria americana della celluloide.

Ferretti, accettando con entusiasmo l’incarico, ha concepito per la sala del Fulgor uno stile anni Trenta – “romagnol-hollywoodiano lo definisce lui divertito – ispirandosi io credo al celebre Chinese Theatre dell’Hollywood Blvd, sul cui piazzale le più famose Star del mondo hanno lasciato l’impronta delle mani e dei piedi, prima ancora che lungo la celebre Walk of Fame. Scegliendo un décor inventato di stucchi dorati, di rossi corallo e di corpi illuminanti da reggia egizia, ci dona il colpo d’occhio della più smaccata finzione scenica. La sua intenzione è quella di restituire il sapore di un mito intramontabile nel quale Fellini stesso è stato allevato, diventandone il grande sacerdote. Nel messaggio di ringraziamento per il conferimento dell’Oscar alla carriera, il regista confessa alla platea osannante: “Io vengo da un Paese e appartengo a una generazione per la quale l’America e il cinema sono pressoché la stessa cosa…”.

Ecco dunque che il cerchio si chiude. Lo scenografo di tanti successi crea in onore del Maestro la cornice che forse l’avrebbe più divertito, uno sontuoso illusionismo da set cinematografico capace davvero di trasportarci in un “non luogo” in cui tutto può avvenire. Persino la tanto attesa

riconciliazione tra Rimini e Fellini. Miracoli della poesia!


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