Io sto con Msf perché ho conosciuto Msf…

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Sono passati esattamente due anni da quando con l’amico e collega Stefano Rogliatti partii per il Kurdistan iracheno per realizzare le riprese del documentario “Dust, la seconda vita”.  L’idea, semplice, era quella di raccontare come una regione più povera dell’Italia o di qualunque altra nazione europea avesse aperto le porte con generosità a una massa enorme di rifugiati e sfollati. Andammo nel nord del paese, nella regione di Dohuk, a trenta chilometri appena da Mosul allora occupata dall’Isis e capitale dell’autoproclamato Califfato.

Di quel luogo ci aveva incuriosito anzitutto un dato: dallo scoppio della guerra in Siria erano infatti trascorsi tre anni e un’area geografica grande quanto il Piemonte e abitata da cinque milioni di persone, sopportava da allora il peso di un milione di rifugiati. Volevamo capire come stessero effettivamente le cose e quali fossero state le reazioni della società kurda a una simile invasione. In quel caso l’aggettivo “invasione” ci pareva in effetti appropriato…

Inoltre, aveva richiamato la nostra attenzione il lavoro svolto da Medici senza Frontiere, in particolare l’attività delle cliniche mobili che portavano soccorso ai profughi fino a pochi chilometri dal fronte e l’opera di delicato recupero psicologico rivolto a donne e bambini vittime della guerra.

Per raccontare tutto questo, per alcuni giorni, chiedemmo quindi ospitalità a Msf. Lo ammetto, nei confronti di un’organizzazione della quale avevo già verificato l’autorevolezza, avevo un preconcetto positivo. Se possibile, trascorso quel periodo, quell’idea si è ulteriormente rafforzata. Mi pare giusto testimoniarlo ora, quando molti luoghi comuni, spesso ignoranti, cercano di delegittimare il lavoro di Msf.

Potrei dire della serietà e della meticolosità con la quale ogni mattina logisti e tecnici preparavano i carichi di farmaci e attrezzature per le cliniche mobili, potrei dire della fatica con la quale medici e infermieri operavano sotto a tendoni arroventati dal sole, potrei dire del sorriso e della dolcezza con la quale la psicologa Sibille ascoltava i racconti delle donne fuggite alla furia dei terroristi.

Potrei dire molte cose, ma c’è n’è una che mi colpì più di altre: la centralità -questa sì estremista- alla tutela delle persone.

Come normale e giusto, non patimmo alcun tipo di condizionamento nel nostro lavoro di giornalisti: osservammo e raccontammo tutto liberamente, nonostante la delicatezza del contesto. La sola e inderogabile condizione posta da Msf per intervistare i testimoni all’interno delle sue strutture fu quella di ottenere da esse un consenso più che informato. Non era infatti sufficiente che la persona fosse disponibile a parlare: era necessario fosse consapevole della diffusione del documentario, dello scopo del lavoro e anche del fatto che nulla la obbligava a parlare di fronte alla telecamera. Condizioni importanti in una situazione nella quale le persone erano profondamente disorientate e potevano avere famigliari ancora esposti al rischio di ritorsioni.

Quella attenzione e quella estrema severità, che accettammo di buon grado nonostante qualche ovvio rallentamento nella lavorazione, mi colpì molto.

Ci sono i grandi dibattiti ideologici e poi ci sono le azioni concrete, quotidiane, quelle che ho potuto osservare sul campo. Non conosco tutte le Ong che lavorano nel Mediterraneo ma sono certo che MSf usi qui lo stesso stile di lavoro che ho conosciuto nel Kuristan: la vita di donne, uomini e bambini prima di ogni altra cosa.

Quello che dovrebbe essere lo stile di ogni essere umano.


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