Dire “mi faccio i fatti miei” è mafia

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Mafia Capitale non è mafia. Così ha deciso il Tribunale di Roma. Rispetto, ma dissento in modo profondo da questa decisione.  Non tanto per la presenza o meno della “intimidazione del vincolo associativo” richiesto dal codice penale (art. 416 bis); quanto per il clima di omertà diffuso nei romani, soprattutto nelle zone periferiche più esposte al fenomeno. Questo per me è il vero segno dell’infiltrazione della mafia: la rassegnazione silenziosa. Dire “mi faccio i fatti miei” è mafia. Dire “è inutile protestare, tanto non serve a niente” è mafia. Avere paura delle conseguenze di un reclamo pubblico e quindi non volersi “esporre” è mafia.

La “mafiosità” è conclamata quando la comunità non direttamente coinvolta, interiorizza il rischio della protesta, per sfiducia nella pubblica tutela.

Quando i cittadini vedono che chi dovrebbe garantire la correttezza si accorda con i mafiosi, si sentono soli e impotenti. Così un normale dovere civico di denuncia, diventa un gesto eroico di reazione. Che compie chi non resiste più all’usura o alle minacce a sé e ai propri familiari. Ma non il semplice testimone, quando percepisce la mafia più forte dello Stato.
A Roma non siamo ancora a questo punto, ma Carminati, Buzzi  hanno corrotto e intimidito politici e amministratori pubblici per instaurare proprio questa sottocultura.
Chiedo, da romano non rassegnato,  che il pubblico ministero ricorra in Cassazione, affinché sia attribuito il “metodo mafioso”a questi ignobili personaggi.

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