Socialfemminismo, confronto fra esponenti della giustizia e del sociale

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Officine culturali Ergot, cronaca del confronto interdisciplinare organizzato dall’associazione Meticcia in occasione della presentazione di Socialfemminismo  di Stefano Santachiara (immagini su fb) Il dibattito, condotto dalla giornalista del Nuovo Quotidiano di Lecce Alessandra Lupo, si è sviluppato con l’interazione fra l’autore, le magistrate Maria Cristina Rizzo e Stefania Mininni e le psicologhe Ines Rielli e Chiara Marangio.

Maria Cristina Rizzo, procuratrice del tribunale dei minori di Lecce, ricorda l’ingresso delle donne per effetto della riforma del ministro della Giustizia Aldo Moro: “Le pioniere del primo concorso del ’65 sono andate in pensione proprio l’anno scorso. Io sono entrata in magistratura a 24 anni, ho già alle spalle quasi 31 anni di anzianità. Ero la terza donna nel tribunale di Taranto, entrai sola in un mondo di uomini. Da allora tante cose sono cambiate, nel 2015 siamo diventate la maggioranza perché nei concorsi abbiamo continuato a superare gli uomini. Ma la strada è ancora fortemente in salita. Sono diventata primo procuratore dei minorenni sette anni fa, quando noi donne eravamo il 10% nei ruoli apicali. Procuratore per i minorenni, così preferiamo definirci, poichè il nostro è un servizio per i minorenni. Siamo arrivate a ruoli apicali con lotte “corpo a corpo”. Uomini, amici hanno fatto ricorso contro di me in tutti i gradi giudiziari possibili: Tar, Consiglio di Stato, persino Corte costituzionale. Gli ostacoli frapposti sulla carriera delle donne sono tantissimi e gli uomini usano anche il pettegolezzo. “Ma non ha le capacità di un uomo, non avrà la resistenza” avevano cominciato a dire.

In questo libro si affronta anche questo tema con l’approccio emico che mette a confronto tutte le competenze, culture, sensibilità. Mi sono appassionata per la professionalità oggettiva e la vivacità della scrittura, che rendendo agevole la lettura mi ha fatto riflettere nella vicendevole comprensione per usare le parole dell’autore. Mi scuso se non sono testuale ma il senso è quello: “vicendevole comprensione necessaria per affrontare le sfide del nostro tempo in una società in continua trasformazione”. Anche per vincere la battaglia per la tutela delle vittime dobbiamo usare la professionalità, non le chiacchiere e l’apparenza, gli interventi di facciata, invece la professionalità è quella che ci salva dalle morti annunciate, dal femminicidio, questa problematica che Santachiara affronta in materia competente. Si vede che non ha solo passeggiato nelle aule giudiziarie perchè coglie il senso pieno della tragedia che si verifica quando le donne arrivano ad un passo dalla morte. Molte le abbiamo tra virgolette “salvate” quando abbiamo fatto il nostro dovere fino in fondo, con le indagini svolte per tempo. Perciò facciamo appello alla coscienza civica, ci curiamo di spiegare nelle scuole e negli incontri pubblici l’importanza della segnalazione: gli insegnanti e tutti i pubblici ufficiali, gli incaricati di pubblico servizio devono smetterla di sottovalutare, minimizzare, tormentandosi se è vero o falso. Ad esempio l’insegnante non deve fare verifiche ascoltando i minori perché, anche se a fin di bene, quello si chiama inquinamento probatorio. A volte hanno timore di segnalare un innocente ma devono sapere che egli non viene messo alla gogna.

Le indagini sono svolte nella massima riservatezza, col dovuto tatto, però senza trascurare che invece una violenza venga portata al suo esito letale proprio per disattenzione, sottovalutazione, indifferenza, ignoranza. E pregiudizio, presente anche nelle persone di elevata cultura, un pregiudizio del quale bisogna svestirsi. La lettura di Socialfemminismo ha rivelato un autore pulito che ha scritto privandosi dei vestiti della società, del preconcetto, dell’immagine precostituita mettendosi nei panni della vittima, vivendo con lei la ricerca della verità e della giustizia, anche sostenendo le indagini come ha spiegato poc’anzi la dottoressa Stefania Mininni. Il rispetto di cui scrive è quello della donna, della parità effettiva, della vittima. In sostanza il rispetto significa anche svolgere le indagini, non bisogna mai lasciare da sole le vittime caricando sulle loro spalle tutta la responsabilità dell’accusa. E’ troppo forte, troppo grave da portare avanti. Usiamo la massima professionalità disponendo accertamenti su telefonini, computer, acquisendo fazzoletti di materiale organico che può servire, e partendo anche dall’ipotesi che la donna menta ricerchiamo la prova oggettiva. Insomma, rafforziamo le indagini oltre la parola della donna e poi non lasciamola sola. La solidarietà non dev’essere parola morta ma parola concreta che si deve sostanziare di servizi sociali, forze dell’ordine, magistratura, centri antiviolenza, consultori efficienti, vicini di casa che non si girino dall’altra parte. Colgo l’occasione per ripetere l’importanza della denuncia per tempo. Le segnalazioni arrivano troppo tardi, ciò significa partire male. Tutti coloro che hanno notizia devono segnalare ai servizi quando si tratta di disagio, alle forze dell’ordine quando captano la presenza di un reato. Poi starà a noi stabilire se di reato non si tratta e che magari si necessita di un sostegno psicologico che richiede un intervento preventivo. Con la dottoressa Mininni, con la quale abbiamo sviluppato in questi anni una collaborazione molto efficace, abbiamo scoperchiato molti casi, anche di incesto, che si aveva finanche paura di nominare. Ci veniva detto che erano solo fantasie. Siamo andate ad acclarare che i padri avevano generato due figli, non uno solo, con la propria figlia. La difesa allora non ha più potuto parlare di “fantasie”. Tali questioni vanno affrontate con coraggio e condivisione, tutti debbono collaborare a livello multidisciplinare facendo rete con psicologi e pedagogisti. Anche per quanto riguarda la tratta, l’abbiamo sempre più riscontrata fra le minorenni nigeriane: purtroppo sono così abituate a vendere il corpo che non riusciamo ad aiutarle adeguatamente, tentano in ogni modo la fuga, anche di passare per maggiorenni, pur di rientrare sulla strada. Per comprendere bisogna essere scevri da pregiudizi, dobbiamo andare a leggere queste situazioni in un processo più ampio, cosi come quando vediamo le minorenni italiane che parlano da donne vissute, leggere, dobbiamo riflettere sul fatto che alcune espressioni scaturiscono dai danni della società e dell’educazione, ovvero di uomini e donne disattenti. Dobbiamo metterci a disposizione, ci vuole pazienza, metodo, comprensione, un nuovo modo di ascoltare, di mettersi in gioco. Questo libro ci aiuta perché fa riflettere. Vorrei dire tante altre cose, ho riflettuto anch’io sulle 2900 partigiane torturate che hanno pagato con la vita, messe al muro. Sulle donne uccise dalla religione. Io sono cattolica, praticante, mi ha molto colpito la ricostruzione storica fatta benissimo in cui ci ricorda l’Inquisizione, le streghe poste sotto attenzione, uccise sul rogo. La violenza di genere cosmica mi viene da dire, alla quale noi dobbiamo porre fine, non in una lotta contrapposta fra generi ma costruendo insieme questo percorso di riscatto”.

Ines Rielli, psicologa, esperta di tratta e violenza: ”Il libro mi è piaciuto molto, lo ritengo utile e necessario. Utile perchè offre un panorama del silenzio delle donne e dell’oppressione delle donne, compendiato in un volume; necessario perchè che io sappia in Italia non c’è. In 21 anni ho insegnato all’università varie discipline, da femminista mi ponevo sempre il problema di trovare i libri di testo che avessero un taglio di genere. Per fortuna quando facevo Psicologia della devianza c’era Tamar Picht, quando ho fatto Psicologia dei gruppi e delle organizzazioni c’era Silvia Gherardi con i suoi splendidi libri come ‘All’ombra della maschilità’, “Donna per fortuna, uomo per destino’. Quando però mi chiedevano del femminismo “ma io vorrei sapere qualcosa di più, da dove posso cominciare?”. La prima risposta era semplice: “parti da te”. “Si, ma di libri”? E io mi ricordavo quello che dice sempre Daniela Pellegrini: ”Non si va a scuola di femminismo”. Dopodichè quella magari diceva “prof ma io devo fare la tesi”. E allora se il taglio è storico abbiamo i libri delle storiche, se il taglio è filosofico abbiamo quelli delle filosofe, se il taglio è politico le tante politiche ma qui troviamo un panorama immediatamente fruibile e utile da cui partire per approfondire. Adesso saprei cosa rispondere: direi parti da te, mettiti in ascolto con te stessa in relazione con le altre donne e poi comincia dal libro di Stefano Santachiara e da lì andremo per la nostra strada. E’ un libro sul silenzio e l’oppressione delle donne scritto da un uomo. Ricordo anni fa una conferenza con Stefano Ciccone, che tanti anni fa ha fondato un gruppo di uomini (Maschile plurale) che affrontano la propria virilità che è riconosciuta all’origine della violenza maschile, un dato di riconoscimento molto importante. In una conferenza casualmente lui disse le stesse identiche cose che io andavo ripetutamente dicendo, in genere producendo un silenzio agghiacciante. Quando Ciccone ha detto “la violenza sulle donne non è un problema delle donne ma della sessualità maschile, gli uomini devono rivedere la concezione di virilità e delle sessualità e bisogna fare dei gruppi con gli uomini” ha ottenuto applausi a scena aperta. La parola maschile è sempre più autorevole e legittimata a parlare. Io lo dissi a Stefano in conferenza: ”Quando fate le vostre riunioni riflettete anche sul fatto di non sostituirvi mai alle donne nelle vostre parole, nei vostri scritti. E allora cosa possiamo essere? Potete solo essere una comunità legittimante e ascoltante”. Ho sempre pensato che noi donne dobbiamo riflettere su quei meccanismi inconsapevoli di complicità col maschile. Le donne non devono mai delegare la loro parola, neanche quando ci sono questi bravi femministi. Il femminista ha sempre più ragione della femminista, però serve perché consente una lettura a un pubblico che magari non ci leggerebbe mai. Riguardo alla tratta, io cito sempre l’espressione di una nostra donna nigeriana che urlando al cielo diceva: “Cristo mi hai fatta nascere nera, povera e prostituta. Nella prossima voglio nascere principessa”. E’ vero, se il maschio italiano torna a casa e ha sempre la moglie con cui se la può prendere, le donne prostituite e nere sono quelle contro cui tutti se la possono prendere, tant’è che se ne muore qualcuna nessuno ne parla, tranne le amiche che condividono su Facebook, ci provano. Ma se avessero rapito 200 americane che cosa sarebbe successo? Ne hanno liberate 82, tutte le altre? Io sono rimasta agghiacciata a vedere le foto di quelle donne. Donatella lo sa, abbiamo portato avanti una collaborazione molto bella, abbiamo avuto un asilo politico che non era un’operazione certo facile. Il capitalismo ha due obbiettivi: lo sfruttamento e il controllo dei corpi, per le organizzazioni che lo sostengono nulla è più insopportabile della libertà, soprattutto della libertà femminile. I meccanismi di controllo dei corpi, sia di migranti maschi sfruttati nelle industrie, nei campi e nella nostra economia sommersa, che i corpi delle donne che servono a soddisfare gli appetiti sessuali dei nostri maschi, sono corpi controllati. Noi operatori sociali dobbiamo stare attenti a non diventare complici, dobbiamo smascherare in ogni occasione gli organismi che privano la libertà. Questo è il criterio che dobbiamo avere: “Stiamo limitando in qualche modo la libertà e l’autodeterminazione di questa donna?” Difficilmente diranno di si, ma succede… se si diventa un’organizzazione a sostegno del controllo dei corpi migranti, allora qualsiasi finanziamento va bene. L’indicatore è sempre la libertà della persona. Per me che ho creato le prime casa rifugio vere a indirizzo segreto dove le persone avevano le chiavi, le donne vivevano come qualsiasi studentessa universitaria, quella è la libertà. C’erano regole di condivisione dell’appartamento come non disturbare, non fumare, se rientri tardi ci avverti, ma sempre nella libertà. Molte donne scappano perché si sentono chiuse, alcune per aver visto mezza volta la sede del centro antiviolenza ci hanno raggiunte. Non so come ma le abbiamo trovate fuori dalla porta. Nigeriane che hanno vissuto quel traffico infernale, che hanno passato il Niger, il Burkina e poi la Libia, sono arrivate qui sui nostri scafi, si sono messe in contatto con altre donne nigeriane, hanno fatto la strada e poi arrivano e si sentono chiuse. Non si può uscire, entrare, telefonare. Questo è il controllo dei corpi. Quindi non mi sorprende che la minorenne dica di essere maggiorenne perchè proprio stamattina una donna mi ha detto “ma io preferisco andare alla Caritas e vendere accendini piuttosto che andare in un posto dove lascio il cellulare e non posso uscire”. Questo vuol dire infantilizzare, togliere anche l’orgoglio del sogno che comunque hanno avuto di affrontare l’inferno per garantire una vita migliore a chi è rimasto in patria. Quindi secondo me le organizzazioni femministe devono presidiare e controllare sempre le libertà, l’autodeterminazione delle donne e dei migranti, e non trasformarsi mai in complici del controllo sociale. Anche il femminismo, lo ricorda nel libro citando Nancy Fraser, è stato ”ancella del capitalismo”. Cerchiamo noi che abbiamo questo pensiero, questa cultura e sensibilità, di individuare le sacche di controllo e di non renderci complici”.

Chiara Marangio, psicoterapeuta dell’associazione Meticcia :”Questa presentazione nasce dalla necessità personale e gruppale di confrontarsi con il maschile. Meticcia fa parte della Casa delle Donne che rivendica lo spazio di un ascolto e uno scambio femminile, però nelle esperienze individuali e associative questo scambio plurale ha a che fare in generale con le persone, anche con gli uomini. Nella nostra crescita ci siamo sempre confrontate sentendo quasi fisiologicamente il bisogno di aprire e di condurre quella che noi amiamo chiamare rivoluzione culturale (che coglie varie tematiche), e farla passare attraverso un’interazione e integrazione fra i generi: nessuna battaglia può essere vinta a nostro avviso oggi se si tratta come un tema speciale, esclusivo ma anche escludente di altri gruppi e collettivi. Al di fuori della necessità dentro Meticcia di confrontarsi con gli uomini, questa cosa è emersa anche attraverso le interazioni con altri collettivi che ci sono fratelli con i quali trattiamo di precarietà migrante e altre questioni; e negli stessi collettivi come quello di Bari, al Bread and roses con cui abbiamo avuto molti contatti negli ultimi anni, in realtà la necessità di cominciare a parlare di questioni di genere e di femminile è venuta dagli uomini, che si sono resi conto di aver rimandato per tanto tempo questa questione come se fosse sempre meno urgente o come se fosse da relegare e delegare ad un tessuto prettamente femminile. Io personalmente ma rappresentando anche il pensiero di Ilaria Fiorio (Associazione Meticcia e Casa delle Donne di Lecce) credo nella congiunzione delle cause, nella congiunzione umana al di fuori del genere. Cioè trattare questioni di genere deve servire a superare la questione di genere, cosi come parlare di violenza, di vittime dev’essere il punto di partenza per superare la condizione della vittima; quindi favorire un processo di autodeterminazione e di emancipazione di quella persona che diventa agente della propria esistenza. E’ l’aspetto che riguarda il mio lavoro ma non solo perché in realtà quello che viene fuori oggi è questo: ognuno ha la propria responsabilità umana nell’autodeterminazione di sé e anche nello stimolare, nel rendersi partecipe di un processo emancipativo collettivo, anche se nel proprio piccolo. Il lavoro che ho la fortuna di fare è proprio quello di favorire l’ascolto della mia rabbia femminile, ma non solo femminile, e di convogliarla per far sì che la vittima che è di fronte a me possa in qualche modo attraverso lo scambio e la relazione umana riconoscere le proprie risorse e le risorse territoriali a disposizione nel contesto. Qui c’è il punto di congiunzione tra le lotte femministe, le lotte in generale per la determinazione di un diritto, gli aspetti di quanto la politica entri nel sociale, quanto la mente di una persona sia sociale e riporti sempre in qualche modo l’influenza e la sintesi del clima che viene fuori. Il saggio intanto mi ha fatto scoprire una serie di figure che non conoscevo. Ad esempio Camilla Ravera. Io sono quasi fanatica del pensiero gramsciano, ho letto di tutto e non mi basta mai, eppure questo personaggio mi è sempre sfuggito. Probabilmente il modo con cui questo nome è stato tracciato nella storia era da comparsa, perciò anch’io non me ne sono accorta. Ho questo dubbio. Il rischio nella grande storia è sempre di fare delle donne delle comparse, o ometterle, oppure trattarle come tema speciale della debolezza, della vulnerabilità della vittima mentre invece Socialfemminismo parla sì di molte perdite, di molti soggiogamenti ma tratta anche di molte lotte, congiunzioni che vengono da lontano e sono qui vicino, che riguardano noi. Il testo parte da personaggi di altri paesi, racconta contesti diversi, fa questi rimandi dal passato remoto al presente, dall’Italia all’Europa eccetera, eppure in ogni passaggio io ho sentito di riconoscermi, di riconoscere una minima parte di me in ognuna di quelle persone. Ed è quello che ci riporta al tema del meticciato, cioè a partire dalla differenza riconoscersi, specchiarsi nell’altro, indipendentemente dalla provenienza, dalla lingua e dai segni, dai comportamenti, o dal manifesto senso del diritto che si è molto diviso sul concetto della violenza relativa… La violenza è violenza perché sentita umanamente e questo è indipendente dai generi tra l’altro, però al di fuori dell’aspetto della violazione attraverso i corpi delle soggettività, e la violazione attraverso le soggettività di interi popoli, perché la guerra è anche questo, c’è anche il riconoscimento delle risorse della vittima, e attraverso il riconoscimento dell’umanità della vittima è molto più semplice avvicinare il mondo e riconoscerci in un mondo molto meticcio che sia un cluster di colori, fatto di molte sfumature. Il lavoro che faccio è andare a fondo nell’orrore, ho cominciato così per andare a cercare però l’umanità profonda, la bellezza, e finalmente col tempo soffermarmi sul mio modo di essere femminile e di trovare il femminile ovunque, compreso nel maschile”.

Dal pubblico interviene un uomo, che lavora come ingegnere informatico alla Ibm: ”Devo dire che forse le donne a volte non si rendono conto della violenza morale ai danni del maschio. Io mi sento vittima di violenza psicologica da parte della mia compagna. La differenza non è tanto la virilità ma il senso di possesso. Ho sempre distinto la gelosia, che è la paura di perdere l’affetto di una persona, dalla paura di perdere il controllo su una persona. Venne posta alla mia compagna la domanda: ”Tu preferiresti scoprire che tuo marito fa l’amore con te pensando a un’altra o che fa l’amore con un’altra pensando a te?”. Disse: ”Meglio con me pensando a un’altra”. Quindi voleva possedere fisicamente. Questa è vita reale. Insomma, bisogna dire a maschi e femmine che l’amore è una cosa e il possesso un’altra”.

Risposta di Stefano Santachiara: ”Ciascuno ha il proprio vissuto che va rispettato ma bisogna considerare il quadro d’assieme. Anche il senso di possesso manifestato in questo caso dalla moglie è comunque frutto di un sedimentato condizionamento che sussume nella concezione proprietaria dell’egemonia economica e culturale maschile, che permane nella civiltà occidentale per quanto siano state raggiunte le parità giuridiche e politiche formali. Il controllo del corpo dell’altra da sé nelle società patriarcali affonda in radici plurimillenarie, interreligiose e prereligiose. Pensiamo alle mutilazioni genitali femminili, questa barbara pratica che si calcola abbia colpito 200 milioni di donne, tramandata da un’antichissima usanza dell’Egitto che si è diffusa presso comunità cristiane copte e islamiche, o pensiamo alle spose bambine, al rito del Sati in India. Vi è una violenza fisica che è propria dell’uomo ma c’è una violenza strutturale e morale del maschilismo che svilisce la donna nei ruoli preassegnati a cominciare dalla famiglia e dal lavoro domestico gratuito mentre anche gli uomini dovrebbero occuparsi della cura e sentirla come propria; quando le donne sono entrate nel mondo del lavoro grazie alle spinte femministe e alle trasformazioni socio-economiche, sono state sfruttate dal capitalismo secondo il ricatto salariale al ribasso fra categorie subalterne. Oggi si toccano punte disumane nell’economia sommersa ma in generale la donna della classe lavoratrice, mutuando dalle citate Tristan e Ravera (“proletaria del proletariato”), è la precaria del precariato: viene penalizzata dalla maternità, dalle tipologie contrattuali, quindi dalla diseguaglianza salariale che ai ritmi attuali si calcola sarà appianata tra 118 anni, dal sex typing che relega le donne ai settori professionali meno prestigiosi. Le statistiche invece dimostrano la superiorità media delle ragazze a scuola e nelle università, vi sono numerosi studi anche sullo sviluppo e sulla migliore responsabilità sociale dell’impresa a gestione femminile, nella magistratura italiana i concorsi dall’ingresso nel 1965 ad oggi hanno visto prevalere le donne tanto che oggi sono la maggioranza. Non bisogna però creare false illusioni: i ruoli apicali restano maschili, e poco meritocratici, il soffitto di cristallo è irraggiungibile perche il sistema si preserva attraverso la gestione di ricchezze, tecnologie, conoscenze, governi. Tra le donne che accettano i modelli sistemici patriarcali rientrano anche coloro le quali hanno interiorizzato la logica del possesso anziché della libertà e dell’autodeterminazione”.

Fonte: https://stefanosantachiara2.wordpress.com/2017/05/18/socialfemminismo-confronto-interdisciplinare-fra-giustizia-e-sociale/


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