Giornalisti, a proposito di soldi e di impegno negli organismi di categoria

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In questo amaro intervento Oreste Pivetta denuncia l’offensiva demagogica di certi colleghi “ipergarantiti” contro rimborsi e gettoni di presenza dei “poveretti”.

Per storPer storie recenti, per lo più legate alla vita del nostro istituto di previdenza, l’Inpgi, prima e dopo la consultazione elettorale, mi è capitato di discutere con alcuni colleghi e soprattutto con gli amici di Nuova informazione a proposito di compensi, diarie, rimborsi spese, di soldi insomma, di cui in vario modo e in varia misura godono quanti di noi sono impegnati chi all’Ordine, chi alla Casagit, chi nel sindacato, chi proprio all’Inpgi.

L’argomento ovviamente è tra quelli che più accendono gli animi. I punti di vista si incrociano e si scontrano, riflettendo al di là della nobiltà degli intenti condizioni molto,molto, concrete. La differenza di classe non è mai morta. Magari si presenta sotto spoglie diverse dal passato. Ma resiste anche tra noi giornalisti. Se mai desiste la lotta di classe, ma la differenza prospera in una società (la intendo in senso lato) che dei valori d’un tempo non sa più che farsene: giustizia sociale, eguaglianza, solidarietà, eccetera eccetera. Con la mai sopita presunzione dei primi della classe di dar lezione di umiltà e parsimonia agli ultimi.

L’Ipergarantito che indica la strada della povertà
Così capita che l’ipergarantito da un contratto a tempo indeterminato nella massima impresa culturale (absit iniura verbo) del paese, possa indicare la strada della povertà (leggi: cancellazione dei cosiddetti gettoni di presenza) per tutti i consiglieri di qualsiasi ordine e grado e a qualsiasi salario, risparmiando solo ai free lance lo stato del missionariato puro: la proposta sottintende come il suo autore consideri tutti i consiglieri indistintamente, attivi, inattivi, precari, disoccupati, free lance alla stregua di acchiappa poltrone o destinatari di impropri ammortizzatori sociali o di oboli caritatevoli, ignorando l’eventuale ma possibile esistenza di impegno e di responsabilità.

Quegli “autolesionisti” dell’Ordine riformato
Sarà probabilmente giusto così. Non ho una esperienza sufficientemente varia per affermare il contrario. Certo, i centocinquanta e oltre consiglieri dell’Ordine sono tanti, sono troppi, ma almeno in questo caso una legge provvederà. E’ vero infatti, come ha sostenuto taluno, che “per l’Ordine fortunatamente ci ha pensato il Parlamento”. La riduzione del numero dei consiglieri potrà infatti giungere solo attraverso una legge dello Stato, dopo che una legge dello Stato aveva nel 1963 istituito l’Ordine. Ma andrebbe riconosciuto che il traguardo probabilmente (manca il voto del Senato) verrà tagliato non in virtù di qualche illuminazione celeste che avrebbe armato di buoni propositi i nostri parlamentari, ma grazie ad una lunga battaglia dei medesimi consiglieri dell’Ordine medesimo (autolesionisti?), unitaria nella rivendicazione di una riforma, divisa certo nella determinazione degli interventi concreti (con uno sparuto drappello di consiglieri d’opposizione a muover d’avanguardia, quegli stessi consiglieri che si presentarono alle elezioni sotto lo slogan “o si cambia o si chiude”).

Negli altri organismi le autoriforme possono attendere
Non risulta che negli altri organismi, tutti nella possibilità di governarsi in autonomia, di riformarsi e quindi di sgravarsi da costose zavorre, si proceda con la stessa intensità. Peccato ad esempio che la riforma della Fnsi giaccia da anni, dal congresso di Bergamo, “affondata” e solo ora sia stata rilanciata (è notizia di questi giorni) dal segretario Lorusso, mentre quella dell’Inpgi giace da anni “arenata”… Si dovrebbe concludere: “Ordine virtuoso”. Per merito proprio e per merito,come ci si augura, del Parlamento italiano.

Servirebbe più serietà e meno demagogia
In queste riforme e in qualche principio sta la chiave di tutto, riforme che dovrebbero ridurre a proporzioni decenti organismi assembleari pletorici e sovradimensionati, talvolta inutili, creando le condizioni di un esercizio non solo da parata della democrazia (non mi si dica che è democratica un’assemblea di centocinquanta persone o che democratico sia un congresso altrettanto obeso: sembrano l’una e l’altro fatti apposta perché le decisioni vengano assunte altrove) e consentendo efficienza, trasparenza, conoscenza, controllo, anche risparmio, anche se si volesse “pagare” chi si impegnasse e lavorasse, pagando e quindi responsabilizzando chi godrebbe del privilegio (oneri e onori, si diceva una volta) di far parte di questi organismi, finalmente smagriti. Non credo alle disinvolte demagogie pauperistiche, soprattutto quando valgono a macchia di leopardo e si colorano d’ipocrisia.

Noi giornalisti cattivi maestri
Siamo, noi giornalisti, per vocazione pedagogica e per servizio, ben disposti a insegnare agli altri rigore, onestà, sacrifici, con particolare attenzione rivolta agli operai e ai pensionati. Dopo tanto predicare qualche cosa dovremmo aver imparato. Intanto che il volontariato può provocare danni, non solo consolazione. Intanto che nessuno è indispensabile. Intanto che un conto è mettere a disposizione la propria professionalità in una azienda privata, un conto in un concretissimo ente che vive dei soldi dei suoi associati e che dovrebbe vivere pure di qualche idealità (solidarietà?). Ancora: che una condizione con i suoi benefici non si può trasferire da un posto all’altro, che Francesco non sarebbe diventato santo se non si fosse spogliato delle ricchezze del padre mercante. Non di solo pane vive l’uomo, che pure ama la popolarità, la fama, magari persino la gratificazione che gli nasce dalle buone azioni, come ci hanno insegnato migliaia o milioni di persone, che hanno rinunciato a molto per dare e ricevere molto. L’anima dovrebbe pur valere qualcosa.

Il cumulo degli incarichi e le incompatibilità
Accenno appena a due altri argomenti di cui si è discusso: il cumulo degli incarichi e cioè le incompatibilità, e il numero dei mandati. Si dovrebbe evitare che chi timbra il cartellino da una parte si presenti dopo lo shopping dall’altra: il dono dell’ubiquità è una iattura per chi dovrebbe guidare “corpi” assai complessi. In questo caso dovrebbero pesare i regolamenti, ma dovrebbe contare il buon gusto (se proprio non vogliamo tirare in ballo la coscienza). “Tagliare” i mandati significa generare ricambio, ma il ricambio frequente genera incompetenza. Restituire moralità o almeno sobrietà dovrebbe rappresentare la meta. Tutto il resto, struttura e gettoni, incarichi e competenze, criteri di eleggibilità, criteri di rappresentatività, ne conseguirebbe. Credo che seguendo questo percorso si ricaverebbe identità e popolarità dimostrando d’aver bene inteso quanto sia violenta la burrasca che stiamo attraversando.


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