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Francesco in Sinagoga: un segnale di impegno per la pace

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Confronti
2 Febbraio 20162 Febbraio 2016

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intervista a Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

La visita di papa Francesco in Sinagoga a Roma è stata accolta con molto calore dalla comunità ebraica: «Un evento altamente simbolico che ha lanciato parole di amicizia, rispetto e pace», ha commentato il rabbino capo Di Segni in questa intervista per Confronti a cura di Claudio Paravati.

Dopo Giovanni Paolo II (nel 1986) e Benedetto XVI (nel 2010), anche papa Francesco ha fatto visita al Tempio Maggiore di Roma, dove è stato accolto domenica 17 gennaio calorosamente dalla comunità ebraica romana, e dai discorsi di saluto di Ruth Dureghello (presidente della Comunità romana), Renzo Gattegna (presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane – Ucei) e dal rabbino capo Riccardo Di Segni.

Rav Di Segni, qual è la sua valutazione della visita di papa Francesco alla Sinagoga di Roma?

Ci sono state tante prospettive differenti, e devo dire che ha prevalso quella del calore umano, del rispetto e dell’amicizia. Un messaggio, questo, che ha avuto grande eco anche sugli organi della stampa e della comunicazione, la qual cosa mi rallegra poiché si tratta di un messaggio importante che desideravamo raggiungere come comunità.

Cercavamo proprio questo tipo di evento, che fosse altamente simbolico e lanciasse parole di amicizia, rispetto e pace.

Ravvisa novità teologiche rilevanti?

Dal punto di vista dottrinale direi che si può parlare di una sostanziale continuità; le differenze rispetto alle visite precedenti [Giovanni Paolo II nel 1986 e Benedetto XVI nel 2010] sono da rintracciare nello stile e nel carattere differenti dei tre papi. È certo emersa la differente posizione per quel che riguarda il ruolo che dovrebbe avere la discussione teologica: da parte ebraica si vorrebbe evitare e non rappresenta una priorità, mentre per la Chiesa cattolica si tratta di un punto fondamentale in agenda.

Da questo punto di vista rimane dunque una qualche asimmetria.

L’incontro ebraico-cristiano è sempre asimmetrico. Per tanti motivi: per le dimensioni numeriche differenti; per l’organizzazione gerarchica, che nell’ebraismo quasi non esiste; e per la storia. Nel senso che il cristianesimo deriva dalla matrice ebraica.

E infatti anche Bergoglio ha ribadito l’allusione agli ebrei “fratelli maggiori”.

Che non è una definizione teologicamente senza conseguenze. È una definizione che dal punto di vista teologico ha la sua problematicità.

Il papa ha accennato in un passaggio del suo discorso ai “tre grandi monoteismi”, aprendo così a una dimensione che tiene insieme ebraismo, cristianesimo e islam. Cosa pensa di questo riferimento?

C’è ancora molto da fare, poiché nonostante la presenza di una rappresentanza musulmana in Sinagoga, l’islam è ancora assente in queste iniziative d’incontro.

Era nostra intenzione dare chiaramente il messaggio che le comunità religiose, ciascuna fedele alla propria identità, non devono e non possono usare la propria fedeltà come strumento di aggressione verso altri e la società.

L’incontro in Sinagoga vuole essere, senza esitazione, una proposta inclusiva, e non esclusiva: in questo senso spero che venga accolta la sollecitazione.

Cosa ne pensa della notizia della visita del papa alla Grande Moschea di Roma?

Un evento importante, e penso che avrà effetti positivi per tutti.

Ci sono stati riferimenti al contemporaneo, a partire dal terrore e dalla violenza che nel mondo hanno luogo anche in nome della religione. Partendo dall’Europa: è oggi tornato ad essere un posto inospitale e insicuro per le comunità ebraiche?

La percezione cambia in modo considerevole a seconda dei luoghi. Ad oggi non si può fare un confronto tra Italia, Francia, Belgio o Svezia, che vivono condizioni molto differenti tra loro. In Francia da anni è stato denunciato, con sordità dell’opinione pubblica e delle dirigenza politica, che la comunità ebraica si sente insicura. Questo è un dato di fatto rilevante. Una settimana dopo l’attentato del gennaio 2015 a Charlie Hebdo e al supermarket kosher, a Parigi, ci fu un comunicato del rabbino capo di Bruxelles che rendeva noto come fortunatamente fosse stato possibile svolgere le funzioni religiose in sinagoga senza incidenti di sorta, grazie alla protezione dell’esercito.

Il rabbino naturalmente se ne rallegrava, perché la notizia era positiva, ma ciò dimostra drammaticamente quanto la situazione possa essere critica, se per pregare nella propria sinagoga è necessaria la protezione dell’esercito.

Il papa ha richiamato all’uso della “logica della pace” in vari luoghi di conflitto odierno, tra i quali anche il Medio Oriente. Esiste secondo lei uno spiraglio per il conflitto tra Israele e Palestina?

Spero che ci sia ben più di uno spiraglio. Anche se la situazione purtroppo ora è ancor più complicata di prima, ed è oggi più ampia della sola questione israeliana e palestinese. L’intera regione è andata in fiamme, il che rende la pace distante, purtroppo.

Come secondo lei è possibile costruire una società di pace nel nostro futuro, senza cadere nel pericolo di “guerre di religione” in versione inedita?

L’incontro appena organizzato col papa ha voluto essere un chiaro e fermo segnale di impegno per la pace. Questo è il messaggio che ci sta a cuore. È oggi da affrontare la questione dell’integrazione in Italia e in Europa con determinazione, a partire dai processi educativi, tramite i quali si devono trovare le strade della vera integrazione. Valdesi ed ebrei per secoli sono stati la diversità in Italia, e proprio per questa loro diversità sono stati emarginati e perseguitati. Quando furono riconosciuti loro i primi diritti civili, nel 1848, ne scaturì una libertà che poi divenne fruttuosa anche per altri e altre nella nostra storia. Questo processo deve ripetersi oggi anche per altri soggetti. Affinché ciò avvenga servono solide radici culturali.

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