Noi e l’Islam. Come il politically correct alimenta lo “scontro di civiltà”

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Mentre gli attacchi del terrorismo fondamentalista islamico mietono vittime con la falce d’odio e disumanità, l’Occidente stenta a riconoscere le diversità profonde tra le due grandi civiltà che si stanno scontrando: quella di matrice giudaico-cristiana, riformata dal liberalismo illuminista, e quella musulmana, ancora tentennate tra il ritorno ad un passato oscurantista, integralista e illiberale, e un futuro “occidentalizzato” pieno di incognite.

Da 30 anni, da quando dagli Stati Uniti iniziò una campagna d’opinione e mediatica per affermare i comportamenti di giudizio definiti “politically correct”, le intellighenzie, i leader politici, le istituzioni, i media hanno operato una sorta di lavaggio di cervello semantico per abolire parole ritenute offensive con vocaboli più “corretti”, più “inclusivi” delle diversità fisiche, culturali, razziali, religiose, sociali. L’Occidente, in pratica, ha subito una sorta di revisione del proprio linguaggio secolare. Chi non si adegua è messo all’indice, subisce l’ostracismo, come spesso capita per il settimanale satirico Charlie Hebdo, “reo” agli occhi dei benpensanti, delle varie gerarchie religiose e delle classi dominanti al potere di essere “politicamente scorretto”, di infrangere questo moderno tabù che sta generando intolleranza e discriminazione. Quando non spinge i moderni “sanfedisti” alle stragi o agli oltraggi di tombe e altri simboli religiosi (in Francia nel 2015 sono stati 806 contro i siti giudaici e 429 contro quelli islamici).

In questi 30 anni, negli Stati Uniti, il “popolo nero” (un tempo black, colored, nigger) si è trasformato semanticamente in “afro-americano”, ma la condizione di isolamento sociale, di sfruttamento, di razzismo non è cambiato di molto, visti anche gli omicidi impuniti delle forze di polizia contro neri incolpevoli. Certo, alla Presidenza è arrivato un “colored”, Obama, simbolo di un’uguaglianza politica tra bianchi e neri che si attendeva da secoli, ma pur sempre espressione dell’élite “afro-americana” ben integrata da decenni nella società a tutti i livelli. Le condizioni di vita, però, per milioni e milioni di neri, ispanici e altre minoranze sono rimaste pressoché invariate. La parola corretta non sempre può contro i meccanismi brutali del sistema capitalistico iperliberista.

Forse che chiamare un cieco, ipovedente o mancante di vista, gli evita tutti i drammi della sua condizione di “minorato della vista”? O chiamare un handicappato, diversamente abile, lo farà inserire meglio nella società? E i sordi che diventano “non udenti”, forse acquistano per miracolo semantico l’udito? Non si possono più chiamare zingari, i nomadi, i rom, i sinti, nè tzigani, eppure nel resto d’Europa li chiamano “Roma” (sic!). Sembra un gioco da Settimana Enigmistica: trova i significati, sinonimi e contrari. In realtà, è non voler riconoscere che i problemi che sono alla radice di queste “Diversità” non si possono risolvere solo con un’ottica “caritatevole”, seppure mascherata da un addolcimento verbale nei loro confronti, perché preoccupati di offendere, di denigrare. Le donne erano discriminate prima del femminismo e oggi lo sono ancora. Abbiamo introdotto il termine “gender” per paura di ghettizzare coloro che vivono “nel mondo di mezzo”: gay, lesbiche, transgender.

In gran parte dell’Unione Europea è stata tolta la carne di maiale dalle mense scolastiche; in Italia sono state bloccate le iniziative per celebrare il Natale secondo la tradizione cristiana (il presepe per esempio), per non urtare le coscienze e le tradizioni delle famiglie islamiche. Oggi, sembra che abbiano più diritti e precedenze le tante diversità che vivono con noi, anziché i “normodotati”. Le minoranze sono diventate, con le legislazioni comunitarie e con i comportamenti indotti dai media, più preponderanti della maggioranza della popolazione. Il politically correct diviene però una resa incondizionata quando ci si confronta o ci si scontra con le “altre civiltà”.

E’ come se scrivere, comportarsi, parlare “correttamente” da sé risolva tutti i conflitti sociali e culturali che esistono sia all’interno dell’Occidente e anche tra noi e l’Islam. Purtroppo, la geopolitica c’insegna che una guerra strisciante, sotterranea, portata avanti con tutti i mezzi illeciti possibili, è alla base delle modificazioni dei rapporti di forza tra singoli stati, tra alleanze multinazionali e tra popolazioni di religione e di razza diverse.

Nei giorni scorsi, Lucia Annunziata, dopo le aggressioni alle donne da parte di centinaia di arabi durante il Capodanno a Colonia, ha gettato un sasso nello stagno del “comune sentire”, del politically correct, sulla concezione del ruolo delle donne nei paesi islamici, trovando qualche condivisione e molte assenze “pruriginose” tra i suoi interlocutori. Proprio il rispetto del loro corpo, delle loro libertà fondamentali, è una delle discriminanti maggiori tra noi e l’Islam. Una situazione di soggezione psicologica, fisica e giuridica, che determina anche comportamenti aggressivi dei maschi musulmani non solo nei loro paesi, ma anche negli stati che li hanno accolti e inclusi socialmente.

Questa discrasia culturale, filosofica e legislativa, la si rileva anche da una lettura comparata delle norme stabilite nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata nel 1948 dall’ONU e poi in parte accettata dagli stati arabi e musulmani nella loro Dichiarazione del 1981, ma con alcune modifiche risalenti alla “Legge coranica”. In questo testo si riconosce anche la secolare “ambiguità” del mondo islamico: accettare “a parole” i valori e le regole del mondo occidentale, ma poi “interpretarli” secondo la “Legge divina”, da cui tutto discende.

Intanto, al posto dei neutri ed egualitari vocaboli “esseri umani” o “individui” cui fa riferimento la dichiarazione dell’ONU, i paesi islamici nella loro Dichiarazione preferiscono la dizione “uomini” per rimarcare la supremazia maschile sulle donne.

“ARTICOLO 10. Diritti delle minoranze

Il principio coranico «Non vi sia costrizione nella Fede» deve regolare i diritti religiosi delle minoranze non musulmane. All’interno di un paese musulmano, le minoranze religiose devono poter scegliere, per la condotta dei loro affari sia pubblici che privati, tra la Legge islamica e le loro proprie leggi

ARTICOLO 12. Diritto alla libertà di religione, di pensiero e di parola

Ogni individuo ha il diritto di esprimere il suo pensiero e le sue convinzioni, entro i limiti previsti dalla Legge. Tuttavia, nessuno ha il diritto di diffondere menzogne o notizie capaci di arrecare oltraggio al comune senso del pudore, né di abbandonarsi alla calunnia o alla diffamazione, né di nuocere alla reputazione altrui.

Ogni musulmano ha sia il diritto che il dovere di difendersi e di combattere (entro i limiti stabiliti dalla Legge) contro l’oppressione, anche se ciò dovesse portarlo a contestare le massime autorità dello stato.

Nessuno ha il diritto di disprezzare o ridicolizzare le convinzioni religiose di altri individui, né di fomentare l’ostilità pubblica nei loro confronti. Il rispetto dei sentimenti religiosi altrui è un dovere che incombe su ogni musulmano.

ARTICOLO 13. Diritto alla libertà religiosa

Ogni individuo ha diritto alla libertà di coscienza e di culto conformemente alle proprie convinzioni religiose.

ARTICOLO 19. Diritto di fondare una famiglia e questioni connesse

Ciascuno dei membri di una coppia ha diritto al rispetto e alla considerazione dell’altro. Ogni marito ha il dovere di mantenere la moglie e i figli, conformemente ai propri mezzi.

All’interno della famiglia, gli uomini e le donne devono spartire doveri e responsabilità secondo il loro sesso, i loro doni, il loro talento e la loro propensione naturale, tenendo conto delle loro responsabilità comuni nei confronti della prole e dei genitori.

Nessuno può contrarre matrimonio contro la sua volontà, né essere privato della personalità giuridica o subirne una diminuzione in conseguenza del suo matrimonio.

ARTICOLO 20. Diritti della donna coniugata

Ogni donna coniugata ha diritto a: vivere nell’abitazione in cui vive il marito; ricevere i mezzi necessari al mantenimento di un livello di vita che non sia inferiore a quello del coniuge, e, in caso di divorzio, ricevere durante il periodo di attesa legale mezzi di sussistenza proporzionali alle risorse del marito, sia per sé, sia per la prole, che essa nutre e sorveglia; essa percepirà questi sussidi indipendentemente dalla sua situazione finanziaria, dai profitti che percepisce e dai beni di cui dispone in proprio; chiedere e ottenere lo scioglimento dei matrimonio conformemente alle disposizioni della Legge; questo diritto si aggiunge al diritto, di cui la donna gode, di chiedere il divorzio davanti a un tribunale; ereditare dal marito, dai genitori, dai figli o da altri parenti, in conformità della Legge.

In realtà, negli stati islamici, a preponderanza sunnita o sciita, il ruolo subalterno delle donne deriva dall’interpretazione della “Legge coranica”, dai testi della Sunna, della Sharia adottata da ciascuna nazione e che induce a pratiche anche vietate nella stessa Dichiarazione dell’81, come l’uso della tortura o l’inattuata “reciprocità” di culto, l’impossibilità per i non credenti in Maometto di entrare alla Mecca (viceversa i cristiani possono accedere al Muro del Pianto di Gerusalemme o nelle sinagoghe, mentre gli ebrei e gli islamici possono visitare San Pietro, ecc…). Sono spesso tollerati la poligamia, i matrimoni combinati anche tra minori, l’allontanamento dei figli dalla madre in caso di divorzio, il ripudio della moglie impedendo così che lei chieda il divorzio, l’uso di abiti coercitivi per le donne, affinché non siano riconoscibili in volto, ecc…

Per i popoli e gli stati islamici è l’interpretazione del Corano, la “Legge fondamentale”, che regola il vivere sociale e lo scambio tra nazioni di differenti fedi, i rapporti economici. L’assenza di una rivoluzione culturale di stampo liberale, illuministica, ha fatto sì che le popolazioni islamiche si aprissero ad alcuni comportamenti indotti dalla società consumistica, dal mercato globalizzato, anche con l’uso delle più moderne tecnologie, compreso il WEB, ma questo senza modificare l’essenza dei loro comportamenti di relazione, specie tra uomini e donne, o anche tra “fedeli e infedeli”. Lo stesso significato della vita umana, il rispetto del valore dell’integrità del corpo umano, è ancora motivo di divisione tra Occidente e Islam. Da qui, la “normalità” degli attacchi terroristici con uomini e donne kamikaze, pronti a farsi esplodere per guadagnarsi il loro Paradiso e rendere le loro famiglie rispettate socialmente ed economicamente per il “sacrificio dei martiri”.

Certo, quando parliamo di Islamici sui media di largo impatto presso l’opinione pubblica, si tende a banalizzare le differenze tra le popolazioni, non facendo le opportune distinzioni storiche, geopolitiche ed etniche tra arabi, turcomanni, persiani, asiatici, abitanti del deserto sahariano, e così via. E così, in questa Babele linguistica, s’impedisce di comprendere le diversità, le ragioni della violenza o della voglia di aprirsi all’Occidente senza ambiguità di una grande parte del mondo islamico. Ecco, allora, che si acuisce lo “scontro tra civiltà”, che serve in ultima analisi ai grandi gruppi finanziari, alle industrie degli armamenti, alle società che detengono il monopolio delle fonti energetiche per continuare a dominare coscienze, popolazioni e governi.

I principali Network mondiali hanno sempre bisogno di creare nuovi “nemici” per occupare le prime pagine e rompere il brusio dei loro telegiornali e quotidiani. Altrimenti perdono pubblico, introiti pubblicitari e, soprattutto, rischiano di non orientare secondo canoni prestabiliti le opinioni pubbliche, sempre più dipendenti dalle moderne “macchine da lavaggio dei cervelli”, come tablet e smartphone. Nell’era della globalizzazione e della digitalizzazione, chi detiene le redini della comunicazione a livello planetario ha la capacità di determinare le scelte politiche, la formazione dei governi, orientare i mercati economici e finanziari, modificare comportamenti e stili culturali di vita.

Forse è molto meglio essere “politicamente scorretti” nel parlare e nello scrivere, piuttosto che nascondere, sottacere le proprie radici e non comprendere così quelle degli altri. Le diversità vanno analizzate, comprese e accettate, ma si deve anche cercare di superarle insieme, integrandosi e rispettandosi reciprocamente. Altrimenti lo “scontro tra civiltà” si acuisce, fino a disintegrarsi vicendevolmente.


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