L’immane tragedia di un’Europa che non c’è

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Il non detto, l’atroce verità che si cela dietro la mattanza che ha sconvolto Parigi la sera di venerdì 13 novembre è che noi occidentali possiamo dichiarare tutte le guerre che vogliamo ma questo conflitto di civiltà lo abbiamo già ampiamente perso.

E non è una storia di oggi, non si parla d’attualità: lo abbiamo perso oltre trent’anni fa, quando ci siamo lasciati infatuare da quell’assurda ideologia economica, e di conseguenza politica, che negando l’idea stessa di società, ha finito col negare i nostri ideali, i nostri valori, i nostri princìpi costitutivi e, infine, il nostro senso di comunità.

Non deve, dunque, sorprendere la facilità con la quale il morbo jihadista si è impossessato delle periferie più degradate delle nostre città: ha trovato un terreno di coltura perfetto e si è sviluppato e riprodotto fino a trasformarsi in un’autentica peste sociale, infestando una collettività ormai ridotta ad un insieme di monadi in guerra con se stesse.

L’altro grande non detto di questi giorni, infatti, è che la carneficina compiuta dai seguaci del Califfo altro non è che la punta di un iceberg ben più compatto e profondo, l’apice di un malessere comune che sfocia in mille piccoli episodi di violenza e malvagità quotidiana, dei quali non ci accorgiamo neanche più per il semplice motivo che siamo ormai mitridatizzati, assuefatti, immersi in questo impasto repellente di sangue, odio e crudeltà reciproca che non risparmia nessuna etnia, nessuna razza, nessuna religione.

Non è la sola spiegazione di quanto è avvenuto, certo, ma è la base di partenza, cui va aggiunta un’altra motivazione che pochi hanno fornito, trattandosi di ragioni scomode che ci costringono a metterci a nudo e ad ammettere pubblicamente gli errori ventennali di classi dirigenti inadeguate. E l’altra grande spiegazione della tragedia parigina risiede nella riduzione dell’islam da una religione a un’ideologia, in un contesto, quello mediorientale, non meno liquido e destrutturato del nostro: una religione totalizzante, quindi, strumentalizzata ad arte da coloro che avevano bisogno di trasformare un messaggio d’amore e convivenza pacifica in un collante in grado di trasmettere a ragazzi nel fiore degli anni un’inusitata volontà di annientamento dei propri coetanei.

Una possibile chiave di lettura dei fatti del Bataclan risiede, ad esempio, nella giovane età delle vittime, compresa la nostra Valeria Solesin: questo è il discrimine rispetto al passato, il punto di svolta che deve indurci a riflettere e a tentare di fornire una risposta possibilmente meno stupida dei latrati cialtroneschi che si sono sentiti in questi giorni da più parti.

Nel 2001 fu colpito un nemico: l’Occidente e il suo simbolo più rappresentativo, ossia l’America e il tempio del suo potere militare (il Pentagono) e finanziario (le Torri Gemelle); fra il 2002 e il 2005 furono sradicate definitivamente le nostre certezze: il teatro Dubrovka di Mosca, le stazioni di Madrid, la scuola di Beslan e i mezzi pubblici di Londra ci dissero chiaramente che non potevamo più sentirci sicuri nelle nostre case, nelle nostre strade, nella nostra serena e placida quotidianità; nel gennaio di quest’anno furono colpiti, sempre a Parigi, due valori fondanti del Vecchio Continente: la libertà d’espressione e il principio cardine della tolleranza religiosa, messo in discussione dall’assalto di Amedy Coulibaly all’ipermercato “kosher” di Port de Vincennes; venerdì scorso è stata colpita prevalentemente una generazione, a dimostrazione che il terreno di scontro, prim’ancora che politico, è oggi più che mai culturale.

Cosa rappresenta, infatti, la nazionale di calcio se non la gioia, l’ardore, l’orgoglio e la baldanza fisica di una nazione? E cosa rappresenta un locale per spettacoli, frequentato per lo più da ragazzi e in cui si esibiva una rock band, se non l’emblema della freschezza, della vitalità e della spensieratezza di un paese che guarda al futuro, concedendosi, giustamente, qualche ora di svago?

Giovani che uccidono altri giovani a sangue freddo, senza pietà, fornendo come unica giustificazione quella di star rispondendo ai bombardamenti di Hollande in Siria: ragazzi che amano la vita e vorrebbero godersela fino in fondo contrapposti a carnefici che odiano la vita altrui e credono che l’unico modo per dare un senso alla propria sia quello di spezzarla al maggior numero di coetanei possibile. A Parigi il Califfo ha compiuto il salto di qualità, minando non solo il presente dell’Europa e dell’Occidente ma, più che mai, il nostro futuro.

Il messaggio è netto e atroce: prima vi abbiamo portato la guerra dentro casa, colpendo i simboli dell’imperialismo e della disuguaglianza spinta all’estremo, poi vi abbiamo tolto ogni certezza, poi abbiamo attaccato i vostri pilastri, gli stessi che campeggiano nelle vostre costituzioni, adesso vogliamo strapparvi l’unica cosa che vi è rimasta: la prospettiva di un futuro migliore.

Sanno bene, difatti, al-Baghdadi e i suoi adepti, che se c’è una generazione radicalmente contraria a barriere, chiusure e oscurantismi è proprio quella dei ragazzi che parlano più lingue, viaggiano in giro per il mondo, fanno l’Erasmus, si confrontano da anni con culture diverse, frequentano locali multietnici e considerano perfettamente normale avere un compagno di banco musulmano o ebreo, col quale magari condividono il tifo per una squadra che è essa stessa un trionfo di multiculturalismo.

Non dimentichiamoci che la Francia è quel paese che il 12 luglio 1998 applaudì i colpi di testa di un ragazzo, Zinedine Zidane, il cui padre era migrato dalla regione algerina della Cabilia in cerca di un futuro migliore. Non dimentichiamoci che la Francia è quel paese la cui nazionale che vinse all’Europeo del 2000 era composta, in gran parte, da figli delle ex colonie, a loro volta migranti e costretti a sopportare tutto il peso del razzismo, della ghettizzazione e delle discriminazioni gratuite da parte dei connazionali. Non dimentichiamoci, infine, che la Francia è la nazione in cui il modello di integrazione positiva, che aveva raggiunto l’apice a cavallo del passaggio di millennio, si è incrinato da almeno dieci anni, da quando Parigi, nel 2005, si vide costretta a fare i conti con la furia disumana delle banlieue in rivolta. È in quel preciso istante, nel momento in cui l’allora ministro degli Interni Sarkozy definì “racaille” (teppa) i giovani manifestanti delle periferie degradate della capitale, che in Francia sono venuti meno i “valeurs de la République” e con essi quell’“alleanza repubblicana” che, ancora nel 2002, aveva consentito a socialisti e gaullisti di fare fronte comune contro la minaccia costituita dal fascista, razzista e anti-semita Front National guidato da Jean-Marie Le Pen.

Oggi tutto questo non esiste più. Oggi sua figlia Marine è in grande ascesa e i tentativi risibili di Valls di invocare l’unione sacra di socialisti ed ex gaullisti contro l’avanzata dei barbari risultano semplicemente ridicoli. Un po’ perché è ridicolo Valls in sé: uno dei peggiori errori di Hollande, con la sua arroganza e i suoi tragici cedimenti ai dogmi liberisti che non hanno fatto altro che alimentare la rabbia e il malcontento delle fasce sociali più deboli e disagiate. Un po’ perché la stessa destra è oggi incarnata da figure che nulla hanno a che vedere con la tensione morale di un De Gaulle o di un Giscard d’Estaing. Un po’, purtroppo, per via della crisi che attanaglia l’intera famiglia socialista europea, ormai a destra della destra, schiacciata su posizioni conservatrici e contrarie al welfare, subalterna ai precetti fallimentari della Scuola di Chicago, thatcheriana fin nelle viscere e a metà fra Bush e Blair per quanto concerne la politica estera, ossia oscillante fra l’idiozia e la farsa.

Il dramma di questa non Europa è che, per l’appunto, non esiste. Quando invoca i supremi valori in nome dei quali unirsi, qualche osservatore maligno fa presente che sono gli stessi che sono stati calpestati con pervicacia ad Atene e messi duramente in discussione a Lisbona, salvo poi dover fare retromarcia di fronte a un fin troppo smaccato tentativo di “golpe democratico”.

Quando parla di rispetto delle regole, qualche analista fa notare che le suddette non esistono e, quando pure ci sono, vengono costantemente piegate alle esigenze del momento, finendo con l’essere applicate rigidamente quando si tratta di colpire i nemici del pensiero unico (Tsipras) e con l’essere interpretate in maniera più che benevola quando si tratta di premiare chi abbassa la testa e dice sempre “signorsì”.

Quando si propone come culla della civiltà, viene in mente che è lo stesso continente in cui la famiglia popolare tollera la presenza di un personaggio abietto come Orbán e quella socialista un signore di nome Fico, il premier slovacco che si vanta di far parte del “Gruppo di Visegrad” e ha sull’immigrazione posizioni non dissimili dal peggior lepenismo.

Quando parla di pace, poi, è del tutto priva di credibilità, avendo la stessa Francia bombardato la Libia nel 2011 nella speranza di riuscire a creare una propria sfera d’influenza, salvo non riuscirci assolutamente in quanto, prima di mostrare i muscoli, bisogna accertarsi di essere De Gaulle e di possedere la stessa competenza, autorevolezza ed esperienza in campo strategico e militare: tutte virtù delle quali il buon Sarkò era drammaticamente sprovvisto.

Senza dimenticare, a tal proposito, il già menzionato Blair e il tristemente celebre Aznar, grigi vassalli di Bush nel compiere la catastrofe irachena; senza dimenticare le posizioni indifendibili del governo Cameron e gli errori commessi anche dagli inglesi in Libia; senza dimenticare la gran voglia di menar le mani che sta iniziando a farsi largo anche alle nostre latitudini, benché fortunatamente, almeno per ora, i toni bellicosi non abbiano varcato la soglia degli studi televisivi, rivelandosi utili unicamente ad alimentare l’immeritata popolarità dei loro autori.

Il dramma dell’Europa è che non c’è, non esiste, oscilla, attende il 2017 nella vana speranza che le forze cosiddette “populiste” perdano le elezioni tanto in Francia quanto in Germania, e forse pure in Italia, e che gli inglesi siano abbastanza intelligenti e saggi da non cedere alle sirene di chi vorrebbe condurli fuori dall’Unione Europea. Il dramma dell’Europa è che, così facendo, decidendo di non decidere, seguendo una linea esasperatamente attendista, finisce col lasciare campo libero proprio alle forze di cui vorrebbe contrastare l’avanzata, dando il là a tutto il loro radicalismo, a tutta la loro ferocia verbale, a tutti i loro propositi irrealizzabili ma, comunque, destabilizzanti per gli equilibri mondiali.

Il dramma di quest’Europa è che, quando servirebbe, non c’è mai; quando ci sarebbe bisogno di unità, il massimo che si riesce ad ottenere è una pur lodevole manifestazione per le vie di Parigi; quando si dovrebbe agire insieme, trovando una comunione d’intenti, il primo a far da solo è proprio Hollande, il quale ha riversato una pioggia di inutili bombe su Raqqa più per lanciare un messaggio alla propria opinione pubblica sconvolta e assetata di sangue che per combattere un terrorismo che, invece, al netto di qualche sconfitta, si rafforza di giorno in giorno. E il simbolo di quest’impotenza generale è proprio la nostra Federica Mogherini, la quale, pur essendo l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea, si è dovuta limitare a un ovvio richiamo all’unità, trovandosi nella triste posizione di essere il ministro degli Esteri di uno Stato che non c’è, di un continente disgregato, di un insieme di cancellerie divise su tutto e costrette ad esprimere, al massimo, una solidarietà di facciata con toni e argomentazioni di maniera.

Per sconfiggere questo cancro, questo abisso di volgarità ed ignoranza servirebbe, ad esempio, la coerenza di smetterla di sostenere, politicamente ed economicamente, quei governi che segretamente finanziano e forniscono sostegno logistico al Daesh; bisognerebbe smetterla di vendere armi e mezzi di trasporto ai terroristi; bisognerebbe scusarsi pubblicamente per gli orrori commessi in Afghanistan e in Iraq e, ultimo ma non meno importante, bisognerebbe smetterla di prendere a modello chi si è macchiato delle colpe che ci hanno sprofondato in questo baratro.

In caso contrario, potremo pure provare a vincere questa guerra, bombardando a pioggia la Siria e asserragliandoci dentro casa, ma avranno comunque vinto loro, in quanto saremo costretti a cambiare drasticamente il nostro stile di vita, scadendo nell’assurda contraddizione di vivere nell’era della massima apertura tecnologica caratterizzata dalla massima chiusura fisica e nei rapporti umani.

C’è solo una generazione che per entusiasmo, apertura mentale, passione civile e per la naturalezza con cui si muove in questo mondo globale e interconnesso, tentando di democratizzarlo, può riuscire nell’impresa di ergersi come argine culturale al baratro oscurantista nel quale vorrebbe farci sprofondare il terrorismo jihadista: non a caso, è di essa che hanno più paura; non a caso, è proprio essa che colpiscono selvaggiamente, nella speranza che ceda all’imbarbarimento collettivo.


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