Dal TTIP a un New Deal transatlantico. Proposte per un accordo sostenibile

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Stimolato dal dibattito in corso nei principali paesi europei, dalla recente manifestazione svoltasi a Berlino e rivelatasi un enorme successo in termini di partecipazione popolare, rifletto a mia volta su un argomento ostico ma essenziale per il nostro futuro: il TTIP. Il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership: accordo di partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti), per dirla in breve, è un accordo commerciale che prevede l’abbattimento di dazi e barriere doganali fra Stati Uniti ed Unione Europea nonché l’uniformazione o comunque la convergenza fra i due continenti per quanto riguarda alcuni standard di sicurezza, in particolare in ambito alimentare.

Ebbene, dopo essermi ampiamente documentato, leggendo numerose fonti, alcune favorevoli, altre totalmente contrarie, sono giunto alla conclusione che si tratti di uno dei più grandi errori del nostro tempo e che sia, tuttavia, emendabile.

Se venisse approvato così com’è, per giunta in seguito a una discussione avvenuta in stanze nelle quali non ha avuto accesso nessuna telecamera né si è potuto appuntare lo sguardo di un solo cittadino, sarebbe una catastrofe: non solo perché verrebbero introdotti in Europa alcuni standard americani sospettati di danneggiare la salute delle persone (dal pollo lavato nel cloro ai bovini imbottiti di ormoni) ma perché verrebbe sancito il dominio totale delle multinazionali sugli stati. In poche parole, se il TTIP dovesse passare senza alcun ritocco e senza essere sottoposto a un serio e approfondito dibattito nelle aule parlamentari di ciascuno stato membro dell’Unione Europea, nel Parlamento europeo e nell’opinione pubblica delle due sponde dell’Atlantico, se tutto questo non dovesse accadere, ci troveremmo di fronte all’espropriazione definitiva dei diritti democratici, a uno scempio della sovranità popolare e a una barbarie irrimediabile che costituirebbe un precedente dal quale sarebbe pressoché impossibile tornare indietro.

Non a caso, anche due europarlamentari socialiste come Alessia Mosca e Immaulada Rodríguez-Piñero Fernández, assai meno ostili verso il TTIP di quanto non lo sia io, hanno scritto sull’ultimo numero della rivista AREL, dedicato al quattordicesimo foro di dialogo fra Italia e Spagna, che “un modo di far fronte alla crescita militare e politica di paesi che si basano anche su straordinari tassi di crescita economica potrebbe essere quello di costruire un’alleanza commerciale tra le due economie più grandi del mondo”. “Il TTIP – aggiungono – potrebbe rappresentare il primo passo di questa nuova alleanza atlantica. Il fine dovrebbe essere quello di formare il mercato più grande del mondo, influenzando e spingendo gli altri attori ad aderire alle sue dinamiche di produzione e scambio”. Tuttavia, ci tengono a precisare anche che “questi importanti sviluppi per l’economia e per il ruolo dell’UE nel nuovo scenario della globalizzazione non possono essere raggiunti ad ogni costo e senza considerare quali sono le nostre priorità. Il TTIP, pertanto, dovrà salvaguardare i nostri alti standard di sicurezza dei consumatori e dei lavoratori, proteggere e rafforzare la potestà legislativa e regolamentare dello Stato e della Pubblica Amministrazione, tutelare il patrimonio delle diversità culturali dell’UE e assicurare trasparenza, sostenibilità e sviluppo in Europa, negli USA e nel resto del mondo. Il negoziato per il TTIP è ancora in corso e, grazie alle pressioni del Parlamento europeo e di molti governi e ONG, è più trasparente rispetto agli accordi commerciali del passato. Tutti i cittadini hanno il diritto/dovere di informarsi e farsi un’opinione, ma la decisione finale andrà presa quando avremo il testo definitivo del trattato e i nuovi studi di impatto, che verranno fatti proprio sulla lettera dell’accordo definitivo”.

Un altro analista esperto di vicende internazionali e del processo di globalizzazione, Federico Rampini, ha centrato il vero punto della questione, scrivendo su “il venerdì di Repubblica”: “Gli americani osservano con un misto di curiosità, perplessità e inquietudine, il dibattito europeo sul TTIP. Anche negli Stati Uniti, come si è visto, il libero scambio e la globalizzazione affrontano poderosi venti contrari. Ma quando si trattava del TPP (Trans-Pacific Partnership: accordo transpacifico n.d.r.) e quindi dell’Asia per gli americani il timore era quello che i nuovi accordi <<abbassassero>> i loro diritti e le loro regole al livello di paesi meno avanzati. Ora con il TTIP gli americani si accorgono che una parte dell’opinione pubblica europea considera gli USA come <<meno avanzati>>. E forse non a torto: dopo un trentennio di egemonia neoliberista inaugurata da Ronald Reagan, l’America ha visto regredire i diritti sindacali, e spesso anche le protezioni del consumatore e dell’ambiente”.

Il liberismo, appunto: il morbo che ha infestato l’Occidente negli ultimi trent’anni, la deriva socio-economica, e di conseguenza politica, che lo ha trascinato nel baratro della crisi più grave dal ’29 e condotto alla perdita di un’identità compiuta, l’abisso che ci ha inghiottito, inducendo milioni di persone ad affidarsi a un’ideologia non meno falsa, nociva e devastante di quelle che hanno dilaniato il Vecchio Continente nella prima metà del Novecento.

Il liberismo: l’uragano della storia che ha ispirato una clausola assurda e contestatissima dagli europei come l’ISDS (Investor-State Dispute Settlement: risoluzione delle controversie fra gli investitori e lo Stato), il quale prevede l’istituzione di una procedura di arbitrato alla quale può far ricorso un investitore nel caso in cui ritenga che i suoi legittimi interessi siano stati lesi dalla decisione di uno Stato.

Ciò significherebbe che gli Stati avrebbero le mani legate nei confronti delle multinazionali, le quali sarebbero libere di imporre le norme a loro più favorevoli in qualunque ambito: dall’agricoltura all’ambiente, dalle nazionalizzazioni ad altri oneri imposti ai privati a salvaguardia del servizio pubblico, col risultato che diventerebbero esse stesse, in qualche modo, degli Stati, transnazionali e assai più potenti dei governi stessi.

Un accordo stipulato alle spalle dei cittadini, contenente norme pericolose e irrispettose della dignità degli esseri umani e dei diritti dei lavoratori, capace oltretutto di trasformare tutti gli esecutivi occidentali in una schiera di burattini al servizio di potentissimi burattinai che agiscono nell’ombra per conto di interessi occulti e contrari ad ogni principio democratico non è ammissibile. E non è ammissibile nemmeno il silenzio dei principali governi europei: corrivi, assenti, in tutt’altre faccende affaccendati, per nulla interessati a spiegare e far conoscere all’opinione pubblica i termini esatti di questo trattato capestro, come se si fossero già trasformati nei burattini poc’anzi descritti, probabilmente per sopravvivere, probabilmente perché hanno ben presenti i rapporti di forza e la loro intrinseca mediocrità e mancanza di autorevolezza.

Riflettiamo infine sul TISA (Trade in Services Agreement: accordo per la liberalizzazione dei servizi): è il braccio armato del TTIP, il trattato che vorrebbe liberalizzare, cioè privatizzare, anche quei beni e quei servizi pubblici considerati essenziali, compresi sanità e trasporti, ed è una minaccia alla nostra convivenza civile, un attacco al nostro stare insieme come comunità, la negazione stessa dei valori alla base delle costituzioni del dopoguerra, invise alla JP Morgan ma proprio per questo da tutelare strenuamente, in quanto ultimi baluardi di una democrazia sempre più sbiadita e messa in discussione.

A tal proposito, ci sembrano molto interessanti le tre proposte avanzate da “Der Spiegel”: “1) Per garantire la massima apertura, l’Unione Europea deve rendere accessibili tutti i documenti rilevanti e coinvolgere nella discussione tutti i gruppi sociali. 2) L’Unione Europea deve creare un tribunale commerciale bilaterale per le vertenze degli investitori. Deve anche essere possibile fare ricorso contro le sentenze. 3) La ‘collaborazione nella regolamentazione’ (la quale – sempre secondo lo “Spiegel” – “prevede la creazione di un consiglio formato da rappresentanti del governo degli Stati Uniti e di autorità dell’Unione Europea, con “i provvedimenti legislativi in tema di regolamentazione” che “prima di essere messi ai voti nei parlamenti nazionali, dovrebbero essere sottoposti al cosiddetto consiglio per la regolamentazione affinché ne verifichi la conformità al TTIP”. “Nel consiglio per la regolamentazione gli interessi imprenditoriali – inoltre – non avrebbero alcun contrappeso, non sarebbero bilanciati in alcun modo dagli interessi dei cittadini. L’unico suo scopo sarebbe sopprimere le barriere commerciali esistenti ed evitare che ne sorgano di nuove. Certo, il consiglio per la regolamentazione non potrà intralciare direttamente l’attività dei legislatori dei vari paesi, ma gli avversari del TTIP temono che, per bloccare un provvedimento, basterà che si presti a essere usato da un’impresa per montare una vertenza”) non è necessaria. È sufficiente che le aziende interessate siano informate, così come prevedono gli accordi commerciali convenzionali”.

In poche parole, ciò che propone l’autorevole settimanale tedesco, pur riconoscendo il valore e la legittimità delle proteste e delle manifestazioni di chi si oppone a questo trattato segreto, è una sorta di TTIP in versione “light”, leggermente meno assurdo e più accettabile agli occhi di chi valuta con preoccupazione e scetticismo la versione originaria ma potrebbe essere disposto ad accoglierne una vagamente meno insostenibile.

La nostra convinzione, al contrario, proprio perché viviamo in un mondo globale, proprio perché non possiamo pensare di rinchiuderci negli schemi e nelle certezze del passato, proprio perché dobbiamo fare i conti con una crisi della politica che ormai investe tutti i continenti e proprio perché non possiamo non tener conto dell’ascesa dei paesi asiatici (il cosiddetto ASEAN), dei BRICS e di alcune economie sudamericane, per tutte queste ragioni, la nostra idea è che si debba dar vita a un New Deal transatlantico che liberi i commerci e abbatta i dazi e le barriere doganali, a cominciare dai vincoli non tariffari, ma uniformando gli standard verso l’alto, garantendo i diritti delle persone, primi fra tutti quelli alla salute e alla sicurezza, creando uno Statuto dei lavoratori e un IRI europeo, trasformando la BCE in un prestatore di ultima istanza direttamente agli Stati che dovessero aver bisogno di liquidità, fissando un tetto alle ore lavorative oltre il quale nessuna azienda, piccola, media o grande che sia, possa andare, traendo esempio dal dinamismo americano e coniugandolo con la maggiore accortezza europea nel campo delle tutele. In poche parole, non avendo alcuna intenzione di riportare indietro le lancette della storia, dobbiamo provvedere a democratizzare la globalizzazione e ad attenuarne le numerose controversie e contraddizioni, avendo ben presente le conseguenze nefaste che potrebbe avere un’ulteriore avanzata del virus liberista anche in fatto di diffusione del malessere sociale e del mostruoso terrorismo jihadista, il quale trae alimento dal senso di abbandono e di emarginazione delle categorie più fragili e dimenticate, dal dolore e dalla sofferenza delle periferie dimenticate e dalla condanna, purtroppo non confutabile, nei confronti di un modello di sviluppo disumano e spregevole.

Democratizzare il processo di globalizzazione per vivere meglio, per difendere la nostra democrazia e gli standard ai quali siamo abituati, per restituire un senso e una dignità alla politica ma, soprattutto, per evitare di divenire davvero uomini soli sul cuor della Terra, in quest’orgia di individualismo barbaro e di alienazione collettiva che ci ha reso monadi nel bel mezzo di una tempesta dalla quale nessuno, da solo, può illudersi di salvarsi.


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