Cosa resterà del Partito Democratico?

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Si scrive Marino, si legge Enrico Letta. Sono ventisei, i consiglieri comunali che, dimettendosi, hanno trasformato in realtà il diktat arrivato da Palazzo Chigi di far cadere un sindaco scomodo e sgradito, ma ricordano, in qualche misura, la drammatica vicenda che, nella primavera del 2013, portò alla mancata elezione di Romano Prodi e alla sconfitta definitiva del vecchio gruppo dirigente del PD. L’unica differenza tra la vicenda romana e le vicende, anch’esse romane, di due anni e mezzo fa è che i responsabili di questa tragedia sono palesi mentre gli artefici di quello scempio sono tuttora ignoti, anche se gli osservatori più maligni, proprio osservando le similitudini tra i due eventi, sostengono che si tratti delle stesse persone.

Non lo sappiamo e non è nostra intenzione star qui ad avallare congetture, gettando la croce addosso a chicchessia senza averne le prove: non ci sembra corretto e non lo faremo.

Ciò su cui vale, invece, la pena soffermarsi, mentre inizia il processo legato a Mafia Capitale, Roma viene commissariata dal prefetto Tronca e, di fatto, dall’alter ego renziano Gabrielli e altri deputati dem abbandonano la nave non riconoscendosi più in un progetto che guarda ormai espressamente a destra, ciò su cui è opportuno soffermarsi è il futuro di questo partito nel quale un tempo molti di noi si riconoscevano.

Il Partito Democratico, ci piaccia o no, non esiste più, come non esiste più il centrosinistra e come non sono possibili, checché ne dica la presidente Boldrini, altri esperimenti simili alle belle esperienze civiche che nel 2011 ci regalarono gli ultimi scampoli di speranza, prima di cadere nella trappola delle larghe intese sine die e della trasformazione di quella che fu la sinistra in una destra leggermente meno impresentabile di quella ufficiale.

La sinistra, già: non stiamo parlando di una semplice collocazione nell’emiciclo di Montecitorio e di Palazzo Madama, non è un’espressione geografica, un vezzo o un’idea fuori dalla storia; la sinistra è un modo di essere, una visione del mondo, una “scelta di vita”, per dirla con Giorgio Amendola, il quale dubitiamo che avrebbe mai avallato, e tanto meno supportato, il declino cui stiamo assistendo in questi giorni.

Perché la svolta impressa da Renzi va addirittura al di là della semplice mutazione genetica, da tanti denunciata come un male e considerata un impoverimento del dibattito pubblico: quella di Renzi, come ha lasciato intendere l’ex sindaco di Roma, Marino, è un’autentica “presa del potere”, la quale prevede il disconoscimento totale dei percorsi precedenti, della storia, della cultura e delle tradizioni di un partito che si presentava come erede delle grandi culture politiche del Novecento e della bella esperienza ulivista di fine secolo e si ritrova oggi ad essere una melassa indistinta, uno spazio sedicente politico in cui la vera assente è proprio la politica, ridotta all’unione di gruppi d’interesse e sostituita da un comitato elettorale permanente il cui unico scopo è vincere, non importa con chi e per fare cosa.

D’altronde, basta mettere in fila una serie di nomi: Prodi, Veltroni, Bindi, Letta, Bersani, Marino, Civati e Cuperlo. Sono alcuni dei principali candidati alle primarie del PD e del centrosinistra dal 2005 al 2013 e hanno in comune il fatto di essere stati messi ai margini o, come nel caso di Civati, di essersene addirittura andati dal PD.

Veltroni si è messo a fare il regista e lo scrittore; Prodi è tornato all’antica passione per l’insegnamento universitario, Letta ha scelto Science Po e un corso di formazione di alto livello per formare la classe dirigente di domani, sperando che risulti migliore di quella che vediamo attualmente all’opera; la Bindi è sottoposta pressoché ogni giorno agli strali dei maggiorenti piddini, primo fra tutti il presidente della Campania, Vincenzo De Luca; di Marino ormai sapete tutto; quanto a Bersani e Cuperlo, contano nel partito più o meno come il due di coppe a briscola quando regna bastoni. In poche parole, della nostra storia, dei nostri valori, della nostra tradizione politica e culturale non è rimasto nulla; al contrario, siamo ormai imprigionati in uno scenario “nuovista” basato sulla rottamazione nel quale l’unica novità è costituita dal nome del macchinista, Renzi al posto di Berlusconi, ma per il resto assistiamo alla riproposizione in forma assai peggiore delle pratiche, delle scelte e dei comportamenti che abbiamo contrastato negli ultimi vent’anni.

Per questo, con tutto il rispetto per la persona, vien quasi da ridere quando il povero Cuperlo si sgola dalle colonne di Repubblica per chiedere a Renzi dove intenda portare il PD: Cuperlo, che oltre ad essere un politico di lungo corso, è anche uno degli intellettuali più raffinati che ci siano oggi in Italia, lo sa benissimo dalla sera dell’8 dicembre 2013, solo che probabilmente fa fatica ad ammetterlo persino con se stesso. Più che a una normale dialettica interna, ormai nel PD assistiamo a scene da Inferno dantesco, con le anime “lasse e nude” della minoranza che vengono costantemente bacchettate dal segretario-premier, il quale sta conducendo la barca della quale purtroppo gli è stato affidato il timone lungo un Acheronte che conduce dritto alla nascita del Partito della Nazione.

Quanto a Bersani, pur essendo un galantuomo degno della massima stima, sarebbe il caso che si fermasse davanti allo specchio e si ponesse una domanda: cosa resta di tutto ciò che ho costruito in quattro anni di segreteria? Nulla, se consideriamo che il responsabile Economia e Lavoro era Fassina, che uno dei direttori della rivista “Tamtam democratico” era D’Attorre (l’altro era Franco Monaco, teorico della “scissione amichevole”), che uno dei pensatori di riferimento era Carlo Galli e che queste tre persone sono accomunate dal fatto di aver abbandonato il PD, ritenendo, a ragione, di non poter più sottostare alle decisioni di un uomo che, per l’appunto, ha preso il potere e ha cominciato ad esercitarlo a piene mani.

Via l’articolo 18, via di fatto lo Statuto dei lavoratori, sì alla linea liberista di Sacconi ed Ichino sul lavoro, sì a tutte le richieste provenienti da Confindustria, dai potentati economici e dalla finanza internazionale, sì alla distruzione dell’ambiente, del paesaggio e del territorio a colpi di trivelle e colate di cemento, sì a una riforma della scuola da far impallidire quelle della Gelmini, sì a una riforma della RAI che riporta il servizio pubblico a prima della svolta storica del ’75, sì a una Legge di Stabilità che realizza fino in fondo i sogni di Berlusconi e sì, infine, a un combinato disposto di riforme istituzionali e costituzionali che la stessa minoranza dem, prima di cedere di schianto come al solito, ha bollato come lesive degli equilibri democratici: queste sono le realizzazioni di Renzi in appena venti mesi di governo.

Crede davvero Bersani di poterlo sfidare dall’interno, in un congresso che, senz’altro, sarà blindato e regolato da norme atte a incoronare nuovamente Re Matteo? Crede davvero di avere ancora una classe dirigente in grado di sfidarlo e di batterlo, quando tutte le sue punte di lancia sono ormai uscite per costruire un soggetto politico autenticamente di sinistra? Ma soprattutto: crede davvero che dopo aver partecipato, con il proprio voto, a questa svolta verdiniana, esista ancora un solo elettore disposto a dargli fiducia?

Ci dispiace dover essere così duri, ci addolora e ci sembra assurdo ciò che sta accadendo, ma è altrettanto vero che di fronte alla gravità di determinate scelte, alla pesantezza di certe decisioni e all’emorragia di voti, di tessere e di militanti storici che si sta verificando da un anno a questa parte continuare a tacere sarebbe un atto di complicità. Un atto di complicità che priva chiunque se ne renda responsabile dell’autorevolezza necessaria per proporre un’alternativa, per rilanciare una sfida, per presentare al Paese un progetto politico diverso e altro che nulla abbia a che vedere con prefetti, commissari, manager, super-tecnici e altri simboli dell’armamentario berlurenziano che vedremo schierati alle Amministrative della prossima primavera e candidati nelle liste elettorali del Partito della Nazione quando si tornerà a votare per le Politiche.

Una parte di noi, dopo essersi illusa ancora per qualche mese di poter condurre una battaglia all’interno del PD, si è resa conto di essere solo un meccanismo di un ingranaggio che deve essere, al contrario, contrastato e fermato, sconfiggendolo nelle urne e mandandolo via, in quanto sta arrecando lesioni difficilmente riparabili al tessuto morale, civile e democratico dell’Italia, come ben testimoniano le critiche provenienti dalle regioni e da tante categorie sociali che pure avevano guardato al renzismo con simpatia ed interesse.

Capisco che sia atroce, probabilmente straziante, per chi ha dedicato l’intera vita ad un ideale e al rafforzamento della casa comune guardarsi intorno e vedere solo macerie; capisco che questo deserto bruci l’anima e faccia male a chi ha avuto la fortuna di conoscere Ingrao e Berlinguer, le piazze, le battaglie per i diritti degli ultimi e i sogni riaccesi dall’effimera stagione prodiana; rispetto il dolore, il tormento e la sofferenza di tanti amici e compagni che considerano il nostro addio una resa, ma dico loro, al tempo stesso, che in politica non si può mai prescindere dalla realtà e che quando si scambiano le proprie utopie con il corso effettivo degli eventi si finisce con l’inaridire le prime e col rendere ancor più amaro il secondo. E questo no, specie in una fase così delicata e prodiga di cambiamenti, non ce lo possiamo permettere.


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