Il rischio è sempre quello di cadere nella retorica e nel ricordo fine a se stesso. Magari un po’ autocelebrativo, quello del “io, noi c’eravamo”. Vittime, spettatori, protagonisti, cronisti del prima-durante-dopo e del giorno simbolo (la notte della Diaz) e delle celle simbolo (Bolzaneto).
A distanza di 14 anni dal G8 del 2001 molte ferite sono ancora aperte. Molte risposte non ci sono state e, probabilmente non ci saranno mai. E molte analisi scontano ancora una contrapposizione ideologica. A mente fredda (non vuol dire dimenticare o fare del revisionismo o del “pentitismo”) qualche riflessione in più e possibilità di confronto (abbiamo ancora un po’ di mesi per preparare il 15° di quelle vicende che sembrano molto lontane) credo si debba e possa costruire.
Articolo 21 con la Fnsi e l’Associazione Ligure dei Giornalisti potrebbero essere i motori di questo confronto, testimonianza. Magari dura e anche po’ dolorosa, ma necessaria. Perché come è stato scritto dieci anni dopo, nel 2011, “loro la crisi, noi la speranza”, resta valido. Nel decennale guardavamo tutti con molta speranza e qualche (successiva) disillusione al di là del Mediterraneo, alle primavere arabe. Se ne discusse molto a Genova e non solo. Ora quel “Mediterraneo” continuiamo ad averlo, a ondate, in casa, quasi assuefatti allo scontro pro-contro accoglienza, agli scontri di piazza, al cliché mediatico. È un “G8” che continua.
E come per il decennale, oggi, se possibile, riemergono sui temi della democrazia, su “quale polizia (quali forze dell’ordine), quale informazione, quale realtà e impegno politico siano possibili, tutte le poche) aperture e le (molte) chiusure, talora insospettabili (il magistrato Cantone) come sul tema del reato di tortura. E quale politica anche: da destra a sinistra, su De Gennaro e dintorni, molto fumo e poco arrosto, anzi l’arrosto di nuovi incarichi c’è stato. Eccome.
Tre gli elementi su cui si potrebbe ragionare.
Il primo. Processi e motivazioni delle sentenze rappresentano un punto fermo, non certo una verità definitiva. È una verità giudiziaria che in taluni passaggi avvicina quella storica. Forse uno dei saggi più illuminanti sui processi Diaz-Bolzaneto è quello dell’ex magistrato savonese, Roberto Settembre che fu estensore delle motivazioni del processo sul carcere provvisorio (primo e unico caso nella storia repubblicana) nella caserma del reparto mobile della polizia, appunto a Genova Bolzaneto. Quel libro che non è una riscrittura della sentenza, rappresenta come un magistrato senza veli ideologici sugli occhi, si sia trovato e abbia vissuto quei processi da uomo delle istituzioni. Invito a leggerlo. Su Genova 2001 non c’è ancora (ci sarà?) verità e giustizia. Non c’è per la morte di Carlo Giuliani la cui indagine penale potrebbe re-intitolarsi “ri-fischia il sasso” (il famoso calcinaccio “volante” in piazza Alimonda che deviò la traiettoria del colpo esploso dal carabiniere Placanica, a mio giudizio la seconda vittima sacrificale del potere in quella piazza). Non c’è sulle oltre 300 denunce per le violenze subite in strada da esponenti di diverse forze dell’ordine irriconoscibili e non denunciabili perché con fazzoletti o caschi sul viso. Ma attenzione (probabilmente è un tema che a sinistra, nel movimento e via dicendo fa venire un po’ di orticaria) non c’è nemmeno sulle violenze di piazza “da parte” di “una parte” dei manifestanti. In primis i black bloc. Non uno identificato, non un chiarimento, una vera indagine. In piazza ci furono violenze gratuite (blocco nero) contro tutto e tutti. Di “reazione”: settori di manifestazione caricati due volte, dai violenti e dalle forze dell’ordine, che reagirono. Per il codice si potrebbe dire che è stata una reazione ad un fatto, un atto, percepito come palesemente ingiusto. Ma è sul palesemente ingiusto che anche noi poco si è ragionato, soprattutto sulla parte della violenza che di reazione o di proposito (blocco nero), in qualche modo ci è appartenuta. È un tema che potrebbe essere approfondito. Politicamente è chiaro che si volle dare una lezione e che la lezioni servì, perché quei giorni e quelle violenze, se non tutta una generazione, allontanarono molti dalla politica. La notte della Diaz, l’elicottero che stazionava sopra la scuola e il GSF, le decine di feriti portati via in barella, il tentativo durato 96 ore di spendere quel blitz (spedizione punitiva) come il cuore degli arresti del blocco nero sono più di un simbolo. Il tempo che trascorre attenua un po’ i ricordi. Sono passati 14 anni, chi c’era non dimenticherà, qualcuno ha scelto di rimuovere quelle ore ed è comprensibile che sia anche accaduto. Ma chi nel 2001 non c’era o non aveva l’età per esserci cosa sa, cosa percepisce di quei giorni? Raccogliere on line, per esempio in un sito non neutro (diciamo laico e libertario) ma di documentazione e riflessione senza troppe connotazioni ideologiche, le motivazioni delle sentenze Diaz Bolzaneto; quelle dei processi per così dire minori (oggi riparte dell’Appello quello sull’ex questore di Genova, Colucci: la Cassazione ha annullato la sentenza con una motivazione grave, violazione del diritto alla difesa, le regole devono valere per tutti) e quelle di condanna ai violenti (l’assalto al carcere di Marassi potrebbe essere un valido elemento di riflessione su piazza, movimento, lotte e violenza) potrebbe essere un’occasione per un fronte di discussione non solo per il 15° del 2001.
Il secondo. Quale polizia ovvero quale sicurezza, quale gestione dalla piazza, quali (e quante?) forze dell’ordine. A ridosso del 2001 scrissi un libro (Fratelli Frilli editori) intitolato “Ripensare la polizia, ci siamo scoperti diversi da cosa credevamo di essere”. Il titolo, riprendeva l’affermazione di un ex vice questore di Genova (Angela Burlando) impegnata dagli albori del sindacato di polizia. Non c’è approfondimento su questo tema, se ne parla poco, poco si sa cosa c’è dietro a uno scudo, un manganello e perché “sono così” (o sono utilizzati così). Sto lavorando a un paio di (difficili) imprese sul tema, ma anche questo potrebbe (dovrebbe?) essere un tema per il 15°. C’è stata una figura, oggi credo a capo della Polizia Stradale, che è stata nevralgica nel prima durante e dopo Diaz, Bolzaneto eccetera. È Roberto Sgalla di cui parlo, personalmente, con grande amarezza avendolo conosciuto e frequentato in altre epoche. La campagna preliminare e successiva di disinformazione fu sua: le ferite pregresse e il sangue di pomodoro sulle scale della Diaz, la conferenza stampa in Questura a Genova il mattino dopo la Diaz. È un aspetto questo poco indagato dal punto di vista giornalistico e delle riflessione politica. Nei processi emerse qui è là, come citazione, ma credo valga il detto che “non tutto quello che non è penalmente rilevante (o non è stato penalmente analizzato), è politicamente accettabile”. Questo aspetto introduce al terzo elemento (noi giornalisti) perché a distanza di anni (ricordate il caso Sandri, il tifoso laziale ucciso in un’area di servizio vicino ad Arezzo, sull’Autosole?) chi c’era vicino al Questore di Arezzo, in una surreale conferenza stampa sui fatti? Provate a indovinare.
Il terzo. Media e giornalismi, in tutte le loro espressioni scritte, video, blog, web, parlate…. La domenica di Sandri furono poche le menti giornalistiche che rammentarono chi era Sgalla. Difficoltà a mettere il dito nella piaga del ricordo? E sì, per noi giornalisti il rapporto con le fonti è cosa delicata e non da poco. Perché ci sono le fonti ufficiali, istituzionali, quello meno ufficiali e quello che ti costruisci scarpinando, scartabellando, indagando e via dicendo. Cito questo esempio per evidenziare come nel 2001 il lavoro giornalistico del prima-durante-dopo sia stato importante, importante nel non mollare la presa su indagini e processi e indagare da soli, per le denunce fatte in quei giorni non solo a livello di prese di posizione come sindacato dei giornalisti. Reputo un’impresa l’assistenza (e non solo quella) che come “Ligure” (lavorando, come era giusto che fosse, non avevamo distacco sindacale) riuscimmo a dare a oltre 1300 free lance provenienti da mezzo mondo, quella legale o sanitaria ad altri colleghi, documentare le denunce presentate alla magistratura. Non fu facile perché non tutta la categoria ne era convinta e le posizioni ideologiche personali o di correnti sindacali poco c’entravano. Appunto i media e i giornalisti: cosa resta di quei giorni e de “la penna più forte della spada”? Qui dico il ricordo, la documentazione, l’impegno di alcuni che ancora continua.
Ma il confine della notte della Diaz, delle celle di Bolzaneto, dei depistaggi, l’abbiamo varcato oppure no? Quel confine della democrazia fu calpestato e violentato. Le impronte delle suole delle scarpe sono state diverse e con diversi livelli di responsabilità. Noi non siamo giudici a Berlino, né a Genova o a Roma. Però potremmo, possiamo, provare a leggere, laicamente, quelle impronte. Sarebbe un bel modo per non dimenticare e non fare tra un anno solo una celebrazione simbolo
*giornalista, ex segretario dell’Associazione Ligure dei Giornalisti-Fnsi