L’esposizione del pericolo

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Cosa c’è di poco chiaro in un’affermazione di uguaglianza “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, come recita l’articolo 3 della Costituzione italiana? Immagino nulla, eppure. Eppure, questa uguaglianza dinanzi alle norme e questa pari dignità sociale, va a farsi benedire al cospetto della totemica Expo. Qui, l’opinione politica è tabù. Chiedetelo ai giovani che hanno fatto parte dell’Onda contro la riforma Gelmini (così imparate a opporvi ai governi), a quelli che hanno partecipato a manifestazioni e sit-in per la pace (pericolosi utopisti), a chi ha frequentato i “centri sociali” (lo metto tra virgolette, non vorrei mai fosse reato pure scriverne). Gente così “sospetta”, infatti, si è vista negare il pass dalla Questura per lavorare fra stand, padiglioni e strutture dell’esposizione universale.

Se vi state chiedendo quali reati abbiano commesso per non poter accedere a quella “straordinaria opportunità di crescita per il nostro Paese” (in questo modo viene venduta l’Expo, giusto?), la risposta è presto detta: nessuno. Da quello che risulta dalle inchieste condotte da organi stampa e sindacati interessatisi alla questione, basta una denuncia anche se mai arrivata a processo, una segnalazione, l’inserimento in un’informativa, una nota sui registri della polizia: roba da “Cile anni ‘70”, scrive a Radio Popolare Valeria, giornalista pubblicista a cui è stata respinta la domanda di accredito.

Se “oggi è già domani” e il domani è quello lì, auguri. Siamo alla sospensione della democrazia e dei diritti più elementari. Siamo allo stato di eccezione che si fa norma e piega le vite di quelli che incappano nella necessità. Siamo alla fine delle garanzie individuali in tema di libertà di pensiero e riservatezza, alla scansione del passato di ognuno di noi, alla condanna per direttissima eseguita da oscuri tribunali e per presunti reati d’opinione.

“L’Expo”, ha dichiarato il miglior interprete del modernismo realizzato, “è l’immagine dell’Italia che ce la fa, la nuova identità della nazione”. E ha ragione: l’immagine e l’identità sono il controllo diffuso, meglio se preventivo, che non esita a prevedere strumenti anche invasivi e limitanti della privacy, sulla cui legittimità pure il Consiglio d’Europa, non certo una combriccola di anarchici, s’interroga, la limitazione delle libertà, meglio se attuata facendo leva sui bisogni, la costrizione a rinunciare a qualsiasi idea conflittuale o minoritaria, meglio se fatta passare come spontanea volontà di conformazione all’ideologia dominante.

Uno scenario che non mi rassicura affatto, ma che ha il pregio di esporre (d’altronde, è pur sempre un’esposizione quella di cui parliamo) chiaramente i pericoli a cui andiamo incontro. Il tentativo ultimo che episodi come questo svelano è la definizione di un processo idoneo a creare quei “copri docili” di cui parlava Michel Foucault, che fa del controllo costante e continuo uno dei suoi strumenti indispensabili. Ribellarsi a tutto questo è doveroso, prima che sia troppo tardi per agire.


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