I rom, il razzismo, i coltelli e i roghi dell’Italia di Salvini

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A Roma, il giorno nel quale la Repubblica celebrava la sua festa, tre italiani con la fissa per l’estrema destra e la cocaina decidono di insultare un cittadino romeno che si trova in un bar. Hanno stabilito che quel giorno il loro tempo libero deve trascorrere così, con offese razziste e minacce di morte. Il romeno non reagisce, preferisce lasciar correre. Ma non è sufficiente. Lo inseguono, entrano nel panificio nel quale ha cercato riparo, lo aggrediscono con un coltello tentando di ferirlo alla gola, infine lo colpiscono alle mani amputandogli parzialmente due dita. Lui scappa, loro continuano a inseguirlo, fin quando i carabinieri non riescono in qualche modo a fermarli e arrestarli. Questo è solo uno dei tentati omicidi di cui sono mandanti Salvini, la Meloni, i loro colleghi di partito e tutti quegli editori e giornalisti che danno loro voce e che costruiscono odio nei confronti dei rom e dei migranti.

Così come sono i mandanti del rogo che qualche altro giustiziere vigliacco ha appiccato davanti al campo rom della Monachina, a Roma. Di notte, perché chi è codardo agisce sempre di nascosto. Atti di violenza, sobillati da chi invoca le ruspe o chissà quali altre e ben più atroci soluzioni. Le parole producono conseguenze e la politica lo sa. Davanti al racconto del ragazzo che ha subito l’aggressione terribile nel cuore di Roma, mi sono chiesto cosa possiamo sperare di buono in questo Paese. E subito dopo mi sono domandato in quale gradino infimo della nostra scala sociale abbiamo infilato i rom. Zingaro non è più un vocabolo che identifica un mondo vasto, storicamente affascinante, ricco di sfumature, positive e negative come qualsiasi pianeta umano quando lo si analizza. Zingaro è usato come un’offesa, uno dei peggiori insulti, una parola che dal nonno al ragazzino sprovveduto viene utilizzata per disprezzare. Un po’ come facevano i nazisti.

La stessa cosa vale per il termine rom. I rom sono divenuti l’emblema della miseria morale, della paura, del latrocinio, della delinquenza. Non c’è spazio per la cultura, per i movimenti internazionali contro le discriminazioni che subiscono, per la conoscenza, non c’è interesse per le condizioni nelle quali si trovano, nulla. C’è spazio solo per l’odio. Dei rom sentiamo parlare solo quando sono protagonisti di episodi di cronaca nel ruolo dei colpevoli. Ne sentiamo parlare con l’aggiunta spesso di particolari fantasiosi e di leggende che si sono ormai radicate come verità assolute. Anche una certa parte di quella società civile attenta e sensibile ai temi della diversità e della multiculturalità, quando si tratta dei rom storce il naso, mostra maggiori timidezze, imbarazzo. “Beh, dai, però loro vivono in quel modo…rubano…violentano…”. Loro. Noi, invece, no.

Loro e noi, in mezzo nient’altro. Né sfumature, né individualità. Le responsabilità degli altri popoli, soprattutto di quelli non ricchi o non occidentali, per noi sono sempre collettive. Sono sempre “loro”. Il crimine, la devianza, le usanze, i modi di pensare e di agire diventano etnici. Quando tutto ciò invece riguarda noi, la sociologia diventa la nostra arma per differenziarci, per non sentirci uguali a un mafioso, a un ladro, a uno stupratore. Da noi ci sono le persone per bene e quelle malvagie. Da loro no. Così, se tre ragazzi rom investono e uccidono una donna e feriscono altre persone, la pena la devono espiare tutti quelli che hanno a che fare con loro: familiari stretti e meno stretti, amici, vicini di casa. Bisogna punirli, bruciare le loro dimore, chiudere i loro campi.

Se invece tre ragazzi italiani, che passano il tempo tra coca e fascismo, prendono un povero innocente, che ha solo la sfortuna di incrociarli in un bar, lo insultano, lo inseguono, cercano di accoltellarlo alla gola, gli tagliano due dita e, non contenti, provano a ucciderlo, nessuno dice niente e nessuno interviene. I loro familiari, gli amici e i vicini possono star tranquilli, non ci saranno manifestazioni davanti alle loro case, nessuno brucerà i loro condomini o chiederà che i loro palazzi vengano abbattuti dalle ruspe. Noi e loro e in mezzo l’odio di un Paese che torna indietro. Razzista come pochi (ma guai ad ammetterlo), corrotto come nessun altro, bigotto, omofobo, mafioso: l’Italia non riparte, l’Italia è svenuta e smarrisce il senso della sua sudata modernità. Gli italiani, invece, il senso lo trovano nel loro sentirsi migliori di quel che sono. Nel loro dar seguito con i fatti agli istinti di vendetta vomitati dall’alto.

Se provi a far capire che la delinquenza è un fatto comune e che nella miseria di ogni individuo, di qualsiasi nazionalità o etnia, la devianza è una delle strade che possono trovar spazio, ti accusano di buonismo, come se tutto il succo del discorso fosse limitato al diktat “o con noi o con loro”. È l’unico schema che conoscono. Elementare e spietato. Un attimo dopo, quando non sanno più cosa ribattere, ti urlano “portateli a casa tua allora!”. Io preferisco sperare che ciascuno di noi abbia una casa nella quale stare e non debba aver bisogno di essere ospitato da qualcun altro.

Posso dire però che io sono stato a casa loro. Perché in un campo rom ci sono entrato, non con le telecamere in mano o con il microfono, ma con occhi, orecchie e bocca. Vicino Bollate (Milano). Sono entrato in almeno cinque case, mi hanno accolto con gentilezza e ospitalità. Ho parlato con loro, ho visto persone di vario tipo e nessuno mi sembrava uguale all’altro o catalogabile in una icona etnica. Ho visto bambini e ragazzini che studiavano. Magari alcuni dei genitori avevano avuto problemi con la legge, ma altri no, come in ogni dannato quartiere italiano. In comune, però, gli abitanti del campo avevano una cosa: tutti erano stati raggirati da una società partecipata che, in nome di Expo, aveva fatto firmare la cessione (a un prezzo nettamente al di sotto del prezzo di mercato) di terreni che erano di loro proprietà da 25 anni.

Avevano fatto firmare, in gran fretta e senza dire la verità, persone in gran parte analfabete, costrette così a sgomberare un’area che gli apparteneva legalmente. Era il tributo da pagare alla vergogna dell’Expo 2015. Ecco, a nessuno di loro ho sentito dire che noi italiani siamo tutti delinquenti o che io ero uno sporco giornalista. O che avrebbero dovuto bruciarci vivi. C’era rabbia o rassegnazione, ma nessuno mi ha mai parlato di “noi” e “voi”. Nessuno ha generalizzato. Le etichette sono una questione italiana e ci stanno uccidendo. Stanno avvelenando il nostro futuro, perché ci impediscono di guardarci dentro e di correre il rischio di scoprirci freddi e impietosi come la lama di un coltello che punta alla gola e alle dita di un uomo disarmato.


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