La stampa e i media lo comunicano ampiamente e i nostri occhi lo vedono direttamente che da qualche giorno gli arrivi di migranti hanno ricominciato ad essere numerosi e frequenti. Più di 8000 in pochi giorni arrivati sulle coste italiane. Lunedì la notizia di un gommone che si è rovesciato al largo della Libia, causando 9 morti e da poche ore, purtroppo, la comunicazione di una nuova tragedia di portata enorme, 400 morti per un barcone affondato 24 ore dopo essere partito dalle coste libiche, la maggior parte giovani e probabilmente minori.
Due sono le cose che ci saltano subito all’attenzione, la prima è che dopo l’effetto tappo dovuto al maltempo del mese di marzo le partenze dalla Libia sono ricominciate in maniera consistente appena le condizioni metereologiche sono migliorate, la seconda è che i morti di questi primi mesi sono molti di più del 2014. L’Alto commissariato ONU per i rifugiati dichiara, infatti, che dall’inizio del 2015 ci sarebbe un numero di vittime significativamente maggiore rispetto allo scorso anno, parliamo di quasi 1000 morti, circa 20 invece nello stesso periodo un anno fa. C’è anche da vedere se l’effetto tappo sia stato dovuto solo al maltempo o se le forze in gioco in Libia non continuino a usare le persone come elemento di negoziazione politica e di guadagno.
Ci aspetta insomma una lunga primavera ed estate, in cui le tragedie, i morti e i numeri saranno strumentalizzati da media e politici che si accuseranno a vicenda cercando di liberarsi da ogni responsabilità. La Guardia Costiera italiana non può continuare ad affrontare da sola questo flusso e Triton è palesemente inadeguato a evitare le morti in mare, come del resto, seppur con numeri minori, lo era Mare Nostrum. Le strategie di “riduzione del danno” rispetto alle tragedie in mare, infatti, non possono essere affidate al tecnicismo dei salvataggi, ma vanno affrontate necessariamente dal punto di vista politico. Il dibattito sul potenziamento o meno del soccorso in mare sembra essere l’unico su cui ci si concentra, nascondendo l’atteggiamento di fondo che l’Italia e l’Europa stanno mettendo in pratica in modo “creativo” da molti mesi, cioè il salvare senza accogliere. Proprio in questi giorni, infatti, abbiamo visto per la prima volta operare la Guardia Costiera tunisina che ha recuperato circa cento profughi provenienti dalla Libia per poi portarli in Tunisia, così come era stato annunciato nelle scorse settimane dal ministro degli Interni Alfano. Chiamano questa operazione “Mare Sicuro”, una vera e propria operazione di esternalizzazione dei soccorsi che dovrebbe – così si legge nei comunicati stampa – funzionare da deterrente rispetto alle partenze dalla Libia ed evitare le tragedie in mare. Ma che fine fanno i migranti portati in Tunisia? Troveranno altre rotte, ancora più rischiose, ma di certo non si fermeranno.
Questo ci pare, in fin dei conti, l’aspetto più interessante da segnalare, ovvero che la frontiera mobile del Mediterraneo ricomincia a spostarsi e a modificarsi, portando ancora una volta le tragedie e le responsabilità lontano dai nostri teleschermi. Ci sono stati, e ci saranno, ancora morti, ma queste tragedie sembrano aver abituato i nostri occhi e le nostre coscienze, quasi da poter affermare che la “banalità del male” ha preso il sopravvento.
In Libia la situazione dei profughi subsahariani è tremenda, altrettanto lo è in molti paesi della zona del Mediterraneo. Basti semplicemente pensare a cosa sia la metafora del campo di Yarmouk, dove i profughi palestinesi sono costretti a dover scappare nuovamente per effetto della guerra siriana. Nessuno, o quasi, accenna più ai corridoi umanitari, tutti parlano di emergenza ma nessuno vuole affrontare veramente questo tema. Come sostengono ormai da mesi da vari versanti, tra cui anche noi, va convocata una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e va costruito un piano di accoglienza globale nel quale ogni Stato che aderisce alla Carta dei Diritti dell’Uomo faccia la sua parte. Non capiamo perché il Consiglio di Sicurezza si convochi solo per discutere di guerre umanitarie e non per costruire risposte globali di fronte a tragedie come queste. Se vogliamo salvare queste persone ed evitare altri morti in mare, allora facciamo diventare scialuppe di salvataggio le ambasciate di tutte le Nazioni che hanno aderito alla Carta dei Diritti dell’Uomo, eviteremmo le tragedie oltre che togliere un sacco di profitti alla criminalità.
E mentre queste giornate primaverili vedranno arrivare ancora persone sulle nostre coste, da Lampedusa si leva una voce forte e chiara, che avrà il suo culmine nella giornata del 1 maggio, contro le strumentalizzazioni, le guerre e le violenze, per un Mediterraneo di pace, bellezza e giustizia. Lampedusa organizza, come si legge nel comunicato stampa, “una giornata di musica, dialogo, lotta e proposte politiche, per ribadire la necessità di affrontare la questione delle migrazioni alla radice, dalle cause che spingono migliaia di persone a lasciare il proprio paese. Per ribadire la necessità di porre fine agli interventi militari. Per ribadire la volontà dei lampedusani di volere vivere di pesca e turismo in un’isola di pace, dialogo e bellezza senza ritrovarsi ciclicamente in ‘emergenze’ volute e provocate” (https://1maggioalampedusa.wordpress.com/). Questo non è poco, in una nazione in cui le regioni più ricche del Nord chiudono all’accoglienza lasciando in Sicilia e a Lampedusa i centri pieni di un’umanità sofferente, impoverita dalla guerra e dallo sfruttamento.
*operatori dell’Osservatorio di Mediterranean Hope (progetto della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia)