Tripoli e Tobruk: due governi per una Libia in frantumi

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Mentre Renzi va a Sharm el-Sheik a stringere accordi commerciali col generale al-Sisi, ponendo sul tavolo anche il tema cruciale della lotta contro il terrorismo jihadista, il mondo si interroga su come fronteggiare l’avanzata dell’ISIS, nel tentativo, speriamo fruttuoso, di scongiurare un eventuale approdo degli adepti del Califfato in Europa.

Tralasciamo la propaganda spicciola, e sinceramente squallida, di quelle forze politiche che lucrano sulle paure della gente e tralasciamo anche i guerrafondai da social network per occuparci compiutamente delle due strategie ipotizzate nelle ultime settimane: l’intervento dei Caschi Blu dell’ONU, che però, a quanto pare, richiederebbe sei mesi, e la più probabile formazione di una “coalition of willingness”, una coalizione di volenterosi, da formare in collaborazione con il cosiddetto “mondo arabo moderato” e da affiancare a un blocco navale che ostacoli il contrabbando di petrolio e tagli i finanziamenti a fazioni e gruppi jihadisti.

Posizioni ragionevoli, dunque, condivise anche dall’inviato dell’ONU Bernardino León e da chi, come Prodi e D’Alema, ha messo in guardia la comunità internazionale dai rischi contenuti nelle avventate dichiarazioni dei soliti cultori dell’“armiamoci e partite”, evidentemente privi della competenza e dell’esperienza necessarie per affrontare un’emergenza che non è solo politica ma anche economica, energetica, strategica, militare e di equilibri globali e, pertanto, deve essere presa in carico con la dovuta perizia, senza interventi frutto della rabbia, del populismo e del risentimento che, proprio per la loro natura, potrebbero avere conseguenze devastanti.

“Non credo – ha asserito D’Alema – che ci sarà una forza armata dell’ONU che andrà in Libia perché credo si tratti di un’operazione complessa, rischiosa e non si capisce chi dovrebbe intraprenderla”. E ha aggiunto: “Non credo che dovremmo offrire all’islamismo radicale e al terrorismo l’argomento polemico di una nuova crociata contro i musulmani. Credo si darà un sostegno a chi oggi in Libia e nei paesi vicini opera per arginare il pericolo principale, l’ISIS”. Infine, parlando dell’intervento militare del 2011 in funzione anti-Gheddafi: negli ultimi mesi e anni si è compiuta “una serie di errori notevoli. Si è destabilizzato il mondo arabo senza avere alcun progetto di stabilità né creare le condizioni perché questa destabilizzazione portasse a una stabilizzazione più avanzata”.

Ciò che bisognerebbe capire, piuttosto, è l’effettiva natura di questo scontro tra fazioni libiche, con il governo di Tobruk riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto da Russia, Egitto e Giordania e il governo di Tripoli, filo-islamico e mai davvero in aperto contrasto con i fiancheggiatori del Califfato, sostenuto implicitamente da Stati Uniti, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. In pratica, stiamo assistendo a una guerra per procura, a una riedizione della guerra fredda in salsa araba, in cui la posta in gioco è altissima perché riguarda non solo il petrolio e le risorse energetiche (di cui Stati Uniti e Russia, al momento, potrebbero anche fare a meno, benché siano comunque risorse appetitose) quanto, soprattutto, il dominio del Mediterraneo e la possibilità di controllo e d’intervento in un’area che chi ha qualche rudimento di geo-politica sa bene che è destinata a dominare il mondo nei prossimi decenni.

I primi a capirlo, non a caso, sono stati i cinesi, la cui presenza in Africa è da tempo massiccia; adesso l’hanno capito anche gli altri, da qui il sostegno alle primavere arabe e la cacciata di tiranni che erano sì dei criminali ma non per questo sono stati estromessi o, come nel caso di Gheddafi, addirittura assassinati. La vera motivazione, se vogliamo parlare il linguaggio della verità, riguarda il controllo di una regione la cui più grande risorsa, prima ancora del petrolio, è costituita dalla manodopera, trattandosi di paesi in cui la crescita demografica è alle stelle e l’età media molto bassa, infinitamente meno elevata di quella di un Occidente che ormai arranca anche a causa dell’invecchiamento della popolazione e di una crisi che ha indotto milioni di giovani a rinunciare a mettere al mondo dei figli.

Ad essere coinvolti nella partita sono, inoltre, altre due potenze di tutto rilievo: l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, entrambi schierati dalla parte del governo di Tobruk e del generale Kalifa Haftar e indispensabili per mantenere i delicatissimi equilibri di un’area che rischia di esplodere, stretta com’è fra le ambizioni nucleari iraniane, la volontà di Israele di bloccare ad ogni costo i negoziati in corso a Ginevra per scongiurare l’atomica persiana, la dirompente avanzata del Califfato, la distruzione sistematica di Iraq e Siria e il timore, espresso, in un’intervista a “La Stampa”, dall’ex leader libico Ali Zeidan di un possibile fallimento dei negoziati a causa delle chiusure della controparte di Tripoli che – a suo giudizio – “non ha una vera leadership” ed è colpevole di eccessiva ambiguità nei confronti degli islamisti. Parole ancor più dure Zeidan le riserva agli intenti dei medesimi, i quali – a suo parere – “non hanno interesse a un compromesso. Vogliono impadronirsi del Paese. Con intenti predatori. Vogliono un bottino”. E poi torna sul suo sequestro, il 10 ottobre del 2013, negando che si sia trattato di un episodio oscuro: “Oscuro? I legami di quelle milizie con il premier di Tripoli Omar al-Hasi sono cosa nota. Hanno circondato la mia casa con centinaia di mezzi. Sono gli stessi che poi hanno dato il via ad Alba libica, l’alleanza di milizie che comanda nell’Ovest”. Infine, ne ha anche per il generale Haftar: “Haftar è stato scelto come comandante delle Forze armate per i suoi meriti. Penso che il suo contributo sia stato positivo. Ma non credo debba candidarsi a un ruolo politico nel futuro. Servirà un civile, un politico per guidare il Paese”.

Può darsi. Vedremo nei prossimi mesi quale sarà l’evoluzione del contesto libico. Al momento, ogni scenario è aperto e le prospettive non sono rosee. L’unica certezza è che un eventuale intervento militare dovrà essere compiuto con finalità e metodi opposti rispetto a quelli che hanno sconvolto l’Afghanistan e l’Iraq perché i seguaci di al-Baghdadi non aspettano altro che di poter chiamare il mondo musulmano alla guerra santa contro l’“Occidente crociato”. Se commettessimo un errore del genere, l’Europa rischierebbe di trasformarsi in un campo di battaglia, e questo qualunque esperto di diplomazia e questioni internazionali lo sa e, per fortuna, sembra averlo rammentato a chi era già pronto a mandare a morire gli altri standosene comodamente seduto in poltrona.


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