Non mi fido

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Viale Verrastro, a Potenza, è una strada in pendenza, come quasi tutte in quella città. Il palazzo della Regione, davanti, non ha una piazza; poco più sopra c’è un piazzale, ma appunto, non una vera piazza. All’esterno, corre una recinzione in ferro, davvero brutta, che circonda una sede moderna, ma senza alcun segno di nobiltà architettonica o signorilità stilistica: è un palazzo degli uffici, come i tanti che popolano i troppi centri direzionali in Italia.

Lì, con lo slogan #mobasta, migliaia di cittadini hanno chiesto con forza che il Consiglio regionale impugnasse presso la Corte costituzionale l’art. 38 dello Sblocca Italia, che nei fatti espropria i governi locali in tema di concessioni per ricerche ed estrazioni petrolifere, e scritto per impedire che, Renzi docet, lo sviluppo si fermasse “per le proteste di tre, quattro comitatini”, ma soprattutto, dicono gli altri, per consentire la pratica della libera trivella nelle terre liberate dagli abitanti e dal loro potere di decisione.

Il presidente Marcello Pittella (il giovane; se saga familiare dev’essere, tanto vale spiegare anche i rapporti d’età) e la sua maggioranza hanno fatto passare la tesi che, fino a all’ultimo dell’anno, è meglio provare a trattare con il Governo nazionale la modifica di quel testo, prima di arrivare allo scontro. Se al 31 dicembre questo non verrà cambiato, ha assicurato il governatore, il 2 gennaio sarà dato mandato dalla Regione a un costituzionalista per procedere all’impugnazione della legge. Facciamoci Natale, insomma, e aspettiamo.

Una notizia a metà, che può essere buona o meno, a seconda di come andrà a finire da qui a fine mese. Per ora, lasciatemelo dire, non mi fido. Per nulla, visti i precedenti, e affatto, considerati i protagonisti territoriali e nazionali, che se avessero davvero voluto fare qualcosa in merito, l’avrebbero già fatta, visto che sono tutti dello stesso partito e della medesima maggioranza. Io non penso che chi ha approvato lo Sblocca Italia l’abbia fatto per sbaglio o per disciplina; ritengo il voto sempre un atto volitivo e voluto: chi ha votato quel testo, l’ha votato così com’è perché così voleva che fosse approvato. Altrimenti, dovrei supporre che l’assenza di vincolo da mandato sia solo un vuoto pronunciamento, e ipotizzare la presenza, invece e al contrario, di un voto vincolato, necessitato, in una qualche maniera, ricattato.

Non mi fido anche perché so già che tanti quelle estrazioni libere le vogliono, anche all’interno di quel governo e consiglio regionale, e che quindi a poco, in tal senso, servirebbe portare a livello locale la titolarità sulle decisioni in materia. Molti, su quel versante, sono convinti che il futuro sia una fonte fossile sotterranea, da vendere in cambio di qualche spicciolo per finanziare la messa a regime dello sviluppo. E così, su quell’ideale, i luoghi dell’orizzonte nei ricordi più cari dei lucani, o quelli della devozione e dell’identità, diventano i nomi di concessioni per l’estrazione, siti di coltivazione, centri oli, e tutta una serie di cose che puzzano di rancido e sporco, prim’ancora che di petrolio.

Sì, lo so, sono temi e ragioni romantici, inutili nell’epoca del concretismo che si vuole post ideologico: “qui si pensa ai numeri, altro che chiacchiere”. E allora, parliamo di numeri. Quelli dell’inquinamento, che registrano punte esagerate e inspiegabili, a voler dar retta ai protocolli, nelle acque dell’Agri e nelle falde della sua valle. Quelli dell’emigrazione, che corre come e più di quando quel petrolio era lasciato dormire sotto la terra coltivata. Quelli della povertà, che cresce alla faccia della ricchezza che l’oro nero promette. E tutto questo, per cosa? Luminarie più festose? Giardinetti più curati? Non chiedetevi perché e chi sono quelli che protestano davanti ai palazzi del potere o che disertano le cerimonie periodiche per l’investitura dei potenti in forma di pratica democratica ed elettorale. Domandatevi perché non dovrebbero farlo.

Sono padri in paesi svuotati di giovani, madri che guardano partire i propri figli, fratelli e sorelle che sanno di dover andare via, come gli altri. Sono stanchi, e non hanno torto. Non ci credono più, e hanno ragione.


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