In tribunale, al fianco dei familiari di Domenico Noviello

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di Annibale Mansillo

Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Francesco Cirillo, Massimo Napolano e Giovanni Letizia sono stati condannati all’ergastolo e 6 mesi di isolamento diurno, Metello di Bona a 43 anni e Luigi Tartarone a 13 anni e 6 mesi per l’omicidio dell’imprenditore Domenico Noviello avvenuto a Castel Volturno il 16 maggio del 2008. I presidi di Libera Formia e Libera Itri hanno partecipato alle udienze del processo e hanno ripercorso in un articolo le emozioni e la scelta di stare accanto ai familiari in un processo che restituisce giustizia alla scelta di un uomo che si è ribellato al racket. Riceviamo e pubblichiamo il contributo curato da Annibale Mansillo ***

 

Domenico Noviello “non un eroe, né un pazzo, semplicemente un uomo”. Questa storia ha inizio quindici anni fa quando Domenico Noviello, imprenditore della provincia di Caserta e titolare di un’autoscuola, nega agli emissari del clan l’obolo, il pizzo per garantire tranquillità a sè ed alla sua attività. Per la camorra, che maneggia giornalmente centinaia di migliaia di euro, il contributo richiesto a questa impresa forse può sembrare un’elemosina, ma è il secco rifiuto di sottoporsi a questa vessazione che pesa come un macigno per il clan. Un imprenditore che rifiuta di versare il pizzo, no, non ci sono abituati. E questo Domenico Noviello lo sa bene, perché non è un eroe, non è un santo e nemmeno un pazzo, ma un uomo sì. E all’uomo, coi suoi pregi e i suoi difetti, non potrai mai chiedere di chiudere gli occhi, di far finta di niente, “tanto, lo fanno tutti”, di abbassare la testa. Così Domenico Noviello non piega la testa perché così è scritto nel suo dna di uomo e di figlio di questa terra.   Agli occhi degli altri imprenditori, Domenico Noviello può assurgere a simbolo del  coraggio di ribellarsi alla violenza, può infondere coraggio alle persone per le quali il coraggio di non pagare il pizzo è un lusso che non si sono mai potuti permettere. Ma qui, in provincia di Caserta, ed in tante le provincie d’Italia, dove la camorra si è ramificata ormai da anni, prima col il finto sorriso e poi con la violenza, l’esempio vogliono darlo danno loro: i clan.  Setola, durante il suo breve ed illusorio pentimento, dichiarerà che “decisi di far uccidere Noviello quando incontrai Francesco Cirillo che mi disse che era in carcere perchè Noviello lo aveva fatto arrestare per una estorsione”.  Lo sgarro andava punito col sangue.

La denuncia e il delitto. Dopo la denuncia presentata da Domenico Noviello e dal figlio Massimiliano, gli estorsori vengono arrestati e  – in quel momento – assicurati alla giustizia. Ma quanto grandi siano le maglie della rete della giustizia lo dimostra la fuga di Setola che, ricoverato in una struttiura ospedaliera del nord per una malattia agli occhi che ne avrebbe compromesso definitivamente la vista, evade e si rifugia nella terra d’origine. Sono passati sette anni dalla denuncia ma la camorra non dimentica.  La sorte di Domenico Noviello è segnata; la scorta che gli avevano affiancato è stata revocata, ma le sue abitudini di vita non sono cambiate: gli itinerari di sempre, casa – lavoro – casa, gli amici di sempre, forse un pò più guardinghi, insomma le abitudini di un uomo tranquillo che sa di aver fatto il suo dovere.  Quello che non sa è che gli assassini sono vicinissimi e lo confesseranno loro stessi durante il processo: si appoggiano ad un’abitazione, situata in prossimità di casa sua, per spiarne le abitudini, in un appartamento di persone che lo avranno incrociato per strada chissà quante volte, salutandolo, ed i cui figli saranno andati a scuola coi suoi figli,  si saranno seduti in chiesa sugli stessi banchi, chissà.  Non ci vuole molto per ucciderlo, “solo” 22 colpi sparati da Massimo Alfiero; ci vorrà molto più tempo per rintracciare dei testimoni o delle persone che, coscientemente e non per dovere, seguiranno il suo feretro. Per anni la famiglia rimane da sola e custodisce il suo dolore in privato, nella speranza che la camorra non colpisca anche Massimiliano che ha denunciato, anche lui, gli estorsori. Allora ci si ricorda di Formia, perla incastonata in quel golfo, che a Domenico Noviello era talmente piaciuta da sceglierla per trascorrere momenti di evasione e di serenità. Il figlio si trasferisce qui, dove apre una attività, e diventa, suo malgrado, con tutto il peso che questa eredità comporta, il simbolo vivente di un popolo che soffre ma che ha avuto, attraverso il sacrificio di suo padre, la forza di reagire. Nascono nuove realtà di associazioni che riuniscono imprenditori che vogliono sfuggire al pizzo e all’usura e al sistema di complicità di colletti bianchi, banche, amministratori comunali e fiancheggiatori vari che c’è dietro. Il sacrificio di Domenico Noviello, in questa terra che comincia a reagire, non è stato vano.

A Formia nasce un’altra storia. E’ quella di un presidio di Libera che nasce in una città che si crogiola nei buoni affari della sua classe imprenditoriale e si illude che vada tutto bene, oltre le rive del fiume.  A Formia, e in tutto il circondario del cosiddetto “basso Lazio”, dagli anni Ottanta in poi scorre un altro fiume: fatto di denaro e di investimenti che alimentano banche e negozi, permettendo alla criminalità organizzata di ripulire il denaro sporco e di conferire una patente di rispettabilità a persone che hanno conti in sospeso con la giustizia.   La presenza della camorra da queste parti è discreta, intelligente, perfino gentile ed ammiccante, ed i clan che altrove si fanno la guerra qui hanno stabilito una pax mafiosa che consente a tutti di prosperare.  La mafia a Formia non uccide, ma avvelena l’economia di mercato drogando al rialzo, fra l’altro, i prezzi degli immobili e dei beni di rifugio nei quali, avendo grandi disponibilità di denaro da riciclare, investe senza risparmio, alterando l’incontro tra domanda ed offerta.

L’esperienza in tribunale, dalla parte giusta. E’ per denunciare questo stato di cose e per affermare che il “piacere dell’onestà”, affermato dalla Famiglia Noviello e passato attraverso il sacrificio del capofamiglia e di tante altre vittime innocenti, debba essere confortato dal Dovere della Solidarietà che i Presidi di Libera di Formia e di Itri si sono recati a Santa Maria Capua Vetere nelle fasi conclusive del dibattimento per l’omicidio Noviello dinanzi alla Corte d’assise. Una città operosa, erede di un grande passato fatto di strade lastricate in basalto, esterni in vetrate liberty, riqualificazioni urbane in stile neoclassico ed ingressi gentilizi alternati ad edifici militari, memori di glorie di battaglie passate, squarciati dalle esigenze della viabilità odierna, assedia il palazzo del tribunale, vera bruttura nel centro della città. I corrispondenti dei giornali e delle televisioni ci vengono incontro per chiederci chi siamo e perché siamo lì. Riempiono in fretta, con pochi scarabocchi, i loro taccuini e non sono sorpresi di sapere che proveniamo da quei territori dove alcuni familiari, e a volte gli esponenti stessi dei clan, come quello che oggi verrà giudicato, risiedono o vengono a trovare rifugio. All’ingresso del tribunale, per questioni di sicurezza, ci perquisiscono: documenti alla mano, come le nuove disposizioni impongono, ci sottoponiamo al controllo del metal detector che suona sino a quando l’ultimo frammento di metallo non viene isolato e portato allo scoperto. Certo, è un’emozione per tutti, ed è una prima esperienza per molti di noi, quella di entrare in un tribunale dove si dibattono procedimenti penali in aule dotate di celle, come quelle che si vedono in televisione e nei film sulla mafia. Ci accoglie Massimiliano Noviello, che è sceso per venirci incontro e ci comunica che a breve saranno lì anche i ragazzi del presidio di Libera di Ivrea, intitolato a suo padre. Lo sguardo di Massimiliano è basso, il tono della voce pacato, l’atteggiamento amichevole ma senza entusiasmi, come se la sua vita si fosse fermata a quel 16 maggio 2008 e sentisse sempre il peso di essere “il figlio di” posto accanto al suo nome.  Siamo sorpresi quando apprendiamo che non possiamo entrare in aula ma al pubblico sono riservate delle sedie in una specie di ballatoio posto al di sopra delle celle, con vetrate che permettono di ascoltare ed assistere, ma evitano ogni contatto con la corte, gli avvocati e le parti civili che parlano e si agitano sotto di noi.  Non siamo gli unici a non essere ammessi in aula. Non lo sono nemmeno le telecamere della Rai e delle televisioni locali per poter tutelare la privacy degli imputati, sembra.  Entriamo lentamente nell’atmosfera di un palazzo di giustizia. Ci meravigliamo anche quando Massimiliano ci dice che, per la prima volta, i rappresentanti dei presidi di Libera sono più numerosi dei parenti degli imputati.   Le prime ad entrare, fra i parenti dei boss, sono due donne: si siedono in silenzio in quell’unica fila di scomode sedie in faggio, scambiando soltanto qualche parola, ogni tanto, a bassa voce, tra loro. Cercano, forse, di intravedere qualcuno che c’è nella cella sottostante, ma non è possibile. Poi, ne arrivano altre due e, dopo un pò, anche un uomo. Non pensavamo che ci fosse questa promiscuità fra parenti degli imputati e pezzi della società civile, come ci riteniamo, ma alla fine è un bene, perchè la vicinanza ci pone davanti a dei quesiti. Ci chiediamo, per esempio, se queste donne sono coscienti delle responsabilità degli imputati e se sono responsabili esse stesse, o se hanno accettato la scelta di delinquere dei loro congiunti come l’unica strada per emergere ed essere riconosciuti come “persone cui portare rispetto” in un ambiente così degradato oppure, semplicemente, per raggiungere il benessere  inseguiti da questa fame atavica che porta a preferire il carcere e persino la morte ad una vita onesta e senza lusso. Per quei familiari è scontato che tra noi e loro ci sia una barriera fatta sicuramente di cultura della legalità ma, a guardare bene, anche di opportunità di vita. Quanti di loro, se fossero nati in un contesto diverso, avrebbero scelto comunque la via della delinquenza? Danno per scontato che noi e loro apparteniamo a due mondi che non si incontreranno mai ed anche sentirsi offrire una caramella, come accade sia al mattino che al pomeriggio, li meraviglia e l’accettano quasi con timore.

Lunghe arringhe e poi arriva la sentenza. Fra le altre cose, in aula, colpisce sentire gli imputati che parlano di omicidi come di sterili rituali compiuti senza pensarci troppo ed un morto in più, o uno in meno, rientra nella contabilità del processo ma non pesa sulla coscienza. Sono arroganti, rubano la scena agli stessi avvocati che li difendono ed interrompono la discussone in aula per comunicare che si assentano, chi per un’ora, chi per tutto il tempo che rimane e chi non si presenta proprio in videoconferenza. Attenzione, però, sono segnali anche questi. Gli uomini dei clan sono lucidi, freddi, spietati e non si abbandonano a gesti inutili se questi non concorrono a portare chi assiste verso la direzione da loro voluta. Non che non debba essere riconosciuto il loro diritto ad essere presenti o meno in aula, ma è facile osservare che i loro comportamenti non siano frutto di decisioni improvvise ed improvvide, ma rispondono a precise strategie di difesa. Qui, in più momenti, si tende a delegittimare un processo che per molti, dall’alto degli ergastoli richiesti a loro carico, significherebbe sradicarli dal loro territorio per anni, per decenni, il che vuol dire per sempre.  Accanto ad un primo collaboratore di giustizia, è arrivata i questi giorni la notizia che anche Giuseppe Setola si è pentito. I giornali aprono con la notizia a quattro colonne, come ironizzava Sasà, il caporedattore di Giancarlo Siani nel film di Marco Risi, e sparano certezze immarcescibili sulla bontà del ravvedimento e sulle rivelazioni bomba che il killer del clan sta sicuramente rendendo al giudice Milita: lo dimostra l’esigenza di trasferirlo in una località protetta. Perplessità su quanto di serio ci sia in questo pentimento le esprimerà persino Massimiliano  Noviello che, in un’intervista, si augurerà, quanto meno, di arrivare a squarciare il velo sui “colletti bianchi”. L’avvocato di Napolano tenta di far passare l’idea che il processo abbia subito una “metamorfosi” e che quindi si sia snaturato in qualcosa di diverso, a seguito delle rivelazioni del pentito. Si arriva al tardo pomeriggio che le arringhe non sono ancora terminate e si rinvia alla settimana successiva per poi chiudere definitivamente col processo solamente il 19 novembre.

La sentenza. Accanto ai familiari, nel nome delle vittime delle mafie.  E’ il 19 novembre e dopo la consueta trafila all’ingresso del tribunale, Massimiliano ci riceve e ci accompagna al bar. Non è la prima volta che ci ringrazia per la nostra presenza in rappresentanza dei presidi di Formia e di Itri; lo farà ancora altre volte in attesa dela sentenza e questo ci farà apprezzare l’importanza di essere qui stasera, accanto alla Famiglia Noviello, insieme a tanti, veramente tanti rappresentanti delle associazioni antimafia, costituitesi parte civile e non, ma tutte qui a testimoniare  che  fuori di qui c’è una società civile che non fa sconti e non dimentica, ma soprattutto vuole verità e giustizia.   L’aria è tesa. Setola, in questi ultimi giorni si è pentito di essersi pentito, tentando di invalidare il castello accusatorio che il PM aveva dovuto ricostruire riformulando le accuse, dopo essersi basato sulle rivelazioni del falso pentito. Si ritorna, non volendo, sulle affermazioni precedenti. Nulla accade per caso: si cerca di delegittimare il processo, invalidando le dichiarazioni rese.  Il corridoio è pieno di giornalisti e di rappresentanti delle associazioni; c’è anche il sindaco ed un assessore di Castelvolturno. C’è nervosismo; l’aria pesante, ammuffita e stantia, si taglia a pezzi. Ogni tanto, quando qualcuno, anche il più silenzioso rappresentante delle forze dell’ordine, esce da una porta, improvvisamente le conversazioni si bloccano e tutti trattengono il respiro. No, non è ancora giunto il momento della sentenza.  Si incrociano gli sguardi di Massimiliano e della sorella Maria Rosaria; non si parlano, ma con gli occhi esprimono, ancora meglio, sentimenti che solo loro stanno provando in questo momento. Oggi è arrivato il giorno tanto atteso, quello della conferma o del ribaltamento delle carte processuali. Adesso sapranno se Domenico Noviello è morto invano, per uno Stato che non l’ha tutelato e che adesso è disposto anche a tradire la sua memoria o se un giorno, i suoi familiari, pur rimpiangendo Chi non c’è più, potranno essere fieri di raccontare che ha fatto il suo dovere.  Che ci sia tensione in giro, lo si coglie dai piccoli gesti: ticchettii di colpi sui tablet e conversazioni confuse al cellulare; qualcuno fissa degli appuntamenti che avrebbe potuto comodamente confermare da casa o da studio. Occhi che guardano verso l’alto, cercando una luce più naturale e più sincera di quella del neon. Cravatte manipolate e dita che attraversano folte capigliature per dare un senso alla propria voglia di muoversi. C’è chi cammina sul posto, battendo i piedi come tante sentinelle nella notte che vogliono difendersi dal freddo. Anche qui si soffre e si aspetta che la porta si apra e la giustizia faccia il suo corso. Quanto ancora durerà questo stillicidio? Ecco il segnale, le persone premono verso la porta. L’ordine è di fare entrare i familiari della vittima, poi gli avvocati  e le parti civili e, infine, le associazioni antimafia. A guardarci indietro, fuori non rimane più nessuno. Siamo tutti qui, pezzi della società civile, forse la più sensibile,  ad esprimere vicinanza ai Noviello. Anche in aula l’atmosfera è tesa. Alle nostre spalle, tre imputati dietro le sbarre. Tutti i cellulari spenti, gli avvocati in toga ed ecco che entra la corte, annunciata da un campanello. Persino i giurati sembrano emozionati e durante la lettura non vola una mosca. Al termine della lettura della sentenza, che ha comminato cinque ergastoli ed ha visto crollare la strategia di Setola, il primo pensiero è per la famiglia Noviello e ci dirigiamo ad abbracciarli.  Strano a dirsi, ma tra occhi lucidi ed abbracci, prosegue l’atmosfera di silenzio o di voci appena percettibili. E’ finito un incubo, ma non c’è da festeggiare. La sentenza non ridarà la vita a Domenico Noviello ma restituirà dignità e coraggio ad un popolo che per troppo tempo è stato in silenzio. C’è rispetto anche per le loro famiglie che subiranno il dolore della lontananza e le conseguenze delle loro scelte. Noi non siamo come loro e questa sera allo Stato  abbiamo chiesto giustizia, non vendetta.  Ma non è finita qui. Adesso vogliamo verità e giustizia per tutte le altre vittime innocenti di tutte le mafie. Anzi, non lo vogliamo soltanto, lo pretendiamo.  E non ci muoveremo da questa trincea fatta di idee e di impegno.

Da liberainformazione.org


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