Via libera al bavaglio?

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Tempi duri per chi, sulla base di sentenze dei giudici o di notizie di reato  già accertate in varie sedi, osano commentare quelle notizie e parlarne su qualcuno dei media in circolazione.  Come è noto, fu il diciotto ottobre 1984 che la Corte Suprema di Cassazione fissò per la prima volta le norme a cui un giornalista(o collaboratore di giornali, trasmissioni radio-televisive o siti Internet ) deve attenersi per evitare una condanna a un risarcimento danni in sede civile per un articolo ritenuto diffamatorio nei confronti della persona di cui si è scritto. Da quel momento, sono trascorsi trent’anni e le cose, per la libertà di informazione, non sono andate affatto bene. Nel nostro paese, si parla di diffamazione da più di centocinquanta anni, perché lo Statuto Albertino, approvato nel Piemonte Sabaudo nel 1848, aveva fissato nell’articolo 28 il reato di diffamazione.

Quasi un secolo dopo il 21 febbraio, abbattuta  dagli angloamericani e dai partigiani di ogni colore tra il 1943 e il 1945 la ventennale  dittatura fascista di Mussolini, la legge numero 47 apre la strada al risarcimento dei danni per diffamazione se si presenta entro novanta giorni una querela in sede penale. Di fatto le querele sono sempre di più diminuite e sostituite dall’aumento delle vertenze civili  per risarcimento da diffamazione. I maggiori beneficiari di quella sentenza della Corte di Cassazione del 1984 sono stati i magistrati e gli avvocati. I primi rappresentano circa il cinquanta per cento dei danneggiati in Italia da articoli ritenuti diffamatori su cui sono chiamati a pronunciarsi altri  loro colleghi.
E cioè dovuto dalla incomprensibile misurazione del tempo previsto: dai solo novanta giorni previsti inizialmente per presentare una querela penale si è passati in trent’anni a ben cinque anni (e dieci in caso di diffamazione aggravata) in applicazione automatica di una norma del codice (l’articolo 2947) nata per altri scopi e non il risarcimento per diffamazione).

I tentativi  successivi in sede parlamentare si sono succeduti ma senza apprezzabili risultati giacché nel 2004 il Senato fissò il termine in un anno dalla pubblicazione dell’articolo ritenuto diffamatorio ma la norma  non fu approvata e il 17 ottobre 2013 la Camera ha fissato la prescrizione in due anni dall’articolo ritenuto diffama torio nel disegno di legge S. numero 1119 che è dal 9 ottobre scorso è all’esame di palazzo Madama. E’ il caso, a questo punto, di vederne le luci che sono state trovate e qualche ombra che ancora rimane, al di delle previsioni sulla realizzabilità che restano ancora in bilico come alcuni giornalisti già pronosticano. I punti positivi, già indicati  da Santo della Volpe, sono l’abolizione  del carcere, l’esclusione dei siti Internet non lega ti a organi di informazione registrati in tribunale dall’obbligazione delle leggi che si stava configurando come una forma di censura di blog o altre forme espressive. Altro dato positivo è lo scatto della prescrizione dopo due anni dalla pubblicazione dell’articolo. Ma c’è qualche ombra che sarebbe il caso di modificare. In primo luogo, la rettifica senza commento. Il divieto assoluto di controreplica lascia spazio al rischio che le rettifiche nascondano la verità dei fatti. Se la rettifica, adeguata, è pubblicata  essa estingue il contenzioso nel senso che con la rettifica pubblicata non si può ricorrere alle vie legali, sia in sede penale che civile.  Inoltre è necessario che ci sia una misura efficace (che ora non c’è)contro le querele temerarie.

Ed ora proprio Libera informazione propone una modifica che, a mio avviso, sarebbe molto utile approvare. Si propone perciò inserire come ultimo comma dell’articolo 96 del codice di procedura civile la seguente frase:” Se risulta che la parte soccombente nel giudizio avente ad oggetto il danno derivante da una pubblicazione ritenuta lesiva della reputazione o contraria a verità ha agito con mala fede o colpa grave e nel contempo risulta accertata la corretta pubblicazione della rettifica prima della notificazione della domanda e la sua omessa richiesta, il giudice, su istanza dell’altra parte, condanna la parte soccombente, oltre che alle spese, anche al risarcimento dei danni da liquidarsi in via equitativa ma comunque in misura non inferiore al dieci per cento della somma richie sta con l’azione.” Si chiede inoltre che il tetto massimo del danno patrimoniale sia proporzionale alle possibilità economiche del giornalista e comunque non superiori ai trentamila euro.  In questo senso è vitale che si provveda, da una parte, a riformare una situazione sempre più difficile e preoccupante tale da realizzare un vero e proprio bavaglio più adatto a un regime autoritario che a quello repubblicano e democratico esistente, dall’altra ,a realizzare una ri forma che tenga conto (e, con le modifiche proposte, a questo risultato si potrebbe  arrivare)nello stesso tempo delle esigenze della massima libertà di informazione ma anche dei diritti dei cittadini eventualmente diffamati.

In un Paese che ha una delle più avanzate costituzioni del mondo e un articolo come il 21 che incomincia con la frase:” Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure.” non è il caso di tutelare soltanto uno dei soggetti dell’eventuale controversia, ma è necessario  tutelare entrambi senza esitazioni.


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