Le Europee e l’assenza dell’Italia

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Basta andare a rivedere uno dei tre confronti fra i cinque candidati per la presidenza della Commissione europea per entrare in un altro pianeta: cinque persone perbene, competenti, ideologicamente schierate, che si confrontano a viso aperto ma in maniera onesta e leale, senza insulti, senza schiamazzi, senza riferimenti e citazioni aberranti e, soprattutto, facendo capire chiaramente al telespettatore chi sono, qual è la loro scuola di pensiero e dove vogliono condurre l’Unione Europea nel prossimo quinquennio. Dopodiché, sedetevi di fronte a una delle innumerevoli arene che vanno in onda dall’alba a notte fonda sui nostri canali televisivi e capirete per quale motivo non uno di questi sia italiano.

Martin Schulz (PSE), Jean-Claude Juncker (PPE), Alexis Tsipras (Sinistra europea), Ska Keller (Verdi) e Guy Verhofstadt (Liberali, ALDE) sono, rispettivamente, un tedesco, un lussemburghese, un greco, un’altra tedesca e un belga. Se a ciò aggiungete che il presidente uscente della Commissione è il portoghese Barroso, il presidente uscente del Consiglio europeo è il belga Van Rompuy e il presidente uscente dell’Eurogruppo è l’olandese Jeroen Dijsselbloem, vi accorgerete che, con l’eccezione di Tsipras e Barroso, tutte queste figure sono espressione del nucleo originario del progetto europeo, di cui facevano parte, per l’appunto, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e l’Italia. Già, ma noi dove siamo?

Alla fine degli anni Novanta, quando il sogno dell’euro si andava trasformando in realtà, l’Europa parlava prevalentemente italiano, con Ciampi protagonista dell’ingresso del nostro Paese nella moneta unica e Prodi addirittura presidente della Commissione dal 1999 al 2004. E oggi? Oggi il vuoto, il nulla, una politica stanca e inconcludente, minata da vent’anni di berlusconismo e dalla conseguente perdita di peso e credibilità internazionale che esso ha causato.

E come dare torto ai partner europei che, di fatto, ci escludono? Parliamoci chiaro: la pessima scelta delle larghe intese sta dilagando pressoché ovunque, persino nella ricca e solida Germania, pertanto non è quest’aspetto a rendere fragile l’Italia agli occhi del mondo; ma non esiste nessun altro paese del Vecchio Continente, nemmeno la povera Grecia stremata dalla crisi, ridotto a un confronto-scontro fra populismi complementari e personaggi che si aggrediscono verbalmente citando da una parte Hitler, dall’altra Pol Pot e, nel terzo caso, arrivando a proporre un Daspo per i politici corrotti. Il populismo sta dilagando ovunque, sia chiaro, ma questa deriva è una nostra peculiarità che, purtroppo, pagheremo a caro prezzo, visto che ci costerà, di fatto, l’isolamento sul piano internazionale e una crescente marginalizzazione che potrebbe condurci addirittura all’irrilevanza.

Perché va bene la campagna elettorale, va bene che bisogna fare i conti con una Nazione allo sbando, va bene che non è questo il momento di perdersi in dotti convegni sui princìpi generali e i valori costitutivi dell’Europa, va bene tutto ma questi toni, questi comportamenti, questo scontro da saloon, condito da risse televisive, offese sempre più ingiuriose, promesse mirabolanti e sempre più demagogiche, scemenze senza limiti e un provincialismo desolante che induce qualcuno a trasformarla addirittura in una lotta politica interna, tutto questo no, non si sopporta, è assolutamente inaccettabile e irrispettoso di un appuntamento tanto importante e decisivo.

Il guaio è che questo discorso è difficile da comprendere e accettare in un Paese che vent’anni di confusione tra politica, comicità e spettacolo di terza categoria hanno trasformato in una sorta di Burlonia permanente, nella quale tutto è ammesso, conta unicamente la comunicazione, i programmi non se li legge quasi nessuno, le proposte latitano, le ideologie sono additate come il male assoluto e i sedicenti partiti che si sfidano sul terreno del nulla semplicemente non sono partiti, stretti fra personalismi sfrenati e leadership assolute, dove l’unico che ancora somiglia a un partito non sta trovando di meglio che fare di necessità virtù e scendere sempre più spesso sul terreno degli altri due, finendo con l’assumerne, in parte, il linguaggio, in parte le esagerazioni, in parte, ahinoi, la pericolosa mancanza di contenuti e concretezza, pur rimanendo di gran lunga migliore, se non altro per il fatto di chiamarsi ancora “partito” e di avere ancora una forma democratica di selezione della classe dirigente. Ma nel complesso non basta, non può bastare, soprattutto in un contesto, quale quello europeo, in cui le questioni sono di portata mondiale, i temi esulano dal recinto angusto di casa propria, i drammi si chiamano Ucraina e Primavera araba e i cialtroni disseminati ad ogni latitudine sono talmente seguiti nei rispettivi paesi da non avere alcuna remora a formulare programmi non dissimili da quelli dei signori che da noi vengono utilizzati per attirare l’attenzione e ottenere un titolo in più sui giornali, come se sulla barbarie del nazismo o sui crimini dello stalinismo si potesse ironizzare allegramente.

In poche parole, l’Italia ha smesso da tempo di avere una classe dirigente non diciamo all’altezza ma quanto meno presentabile, vittima com’è di un dibattito sterile, di una guerra tra capipopolo, di una discussione pubblica che sfigurerebbe persino in un’osteria delle più malfamate, in cui quasi nessuno conosce un solo candidato, in cui la gente è convinta di votare per questo o quel leader, in cui l’urlo si è sostituito alla riflessione, in cui pochi hanno capito davvero per chi e cosa si voti domenica prossima, quale sia la posta in palio e in cui, in conclusione, il massimo della proposta che si può avere la fortuna di ascoltare è quella di ridurre ulteriormente i privilegi della politica.

Non sorprendiamoci, dunque, se a Bruxelles ci hanno messo dietro la lavagna. Per lo spettacolo indecoroso che stiamo offrendo e la mediocrità della nostra non politica, già è tanto che non ci abbiano ancora cacciato.


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