Ricordando Alain Resnais , regista e inventore di ‘linguaggi’

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Almeno tra i cinefili d’Italia mi sembra che abbia  suscitato sincero cordoglio, ma vago e sporadico ripensamento critico (con la sola eccezione del bel  saggio  composto  da Roberto Silvestri per  l’edizione on line di “micromega”) la recente scomparsa –a 91 anni-di Alain Resnais,   uno tra i più singolari,spiazzanti,provocatori registi del secondo novecento- comunque attivo sino alla fine dei suoi giorni terreni.   D’altronde è quasi impossibile analizzare l’opera dell’autore francese  nel breve spazio di un commiato, di un ricordo frammentato come le mille schegge della sua creatività costruita e de-costruita, composta e de-composta, strutturata e de-strutturata sempre e comunque dal quel suo strambo ‘genius’ di narratore ‘cortese’, affascinante,ma  ben solerte  a smentire,  scombicchierare (come il connazionale Queneau)  nesso e sintassi filmica di ciò che allo spettatore appariva compiuto e definito.

Indubbiamente  i suoi tributi più importanti (alla storia del cinema), da “Notte e nebbia” (1955) a “Hiroshima mon amour”(1958),  da ”L’anno scorso a Marienbad” (1961) a ”Muriel, il tempo di un ritorno”  (1963), da  ”La guerra è finita” (1966) ad “Je t’aime,je t’aime (1968)  (proseguendo poi con  ”Providence”, “La vita è un romanzo”, ”Mèlo”,   realizzati a cavallo tra gli anni settanta e ottanta) sono  tutti legati da un singolare filo d’Arianna, rappresentato da una cangiante memoria (come le cellule del corpo), su cui amabilmente ‘divampa’ il sussulto ondulatorio del ritorno al passato (e del  riapprodo al   presente) attraverso una geometria dei sentimenti e  ideali umanitari,  esplicitamente dolorosi  benché  liberatori.

“La cifra stilistica di Resnais fu strettamente connessa a questa chiara scelta narrativa,con un significativo lavoro sul montaggio che  fu soprattutto relativo alla  necessità di intrecciare storie presenti, coeve, strettamente individuali e personali alla Grande Storia” (D. Amione). ineludibilmente indirizzate ai  ‘i viventi’ d’una certa epoca e di una certa condizione umana, da cui nessuno può dirsi  graziato: Olocausto, disillusioni del Socialismo reale, alienazione dell’uomo ‘faber’,  triturato come oggetto inutile.

Fulminante ed enigmatico (per chi a quei tempi era solo un ragazzino) fu il primo incontro con Resnais (“Hiroshima mon amour”),  frutto della sintonia,delle affinità elettive tra il regista e la scrittrice Marguerite Duras,  autrice del  soggetto e della sceneggiatura di un film. Il quale, precedendo di un anno il debutto di Godard con “Finoall’ultimo respiro”, può a pieno titolo considerarsi l’ouverture di quella ‘nouvelle vague’  destinata a scoverchiare codici linguistici e sinapsi di fruizione di ciò che l’immediatezza ‘metateatrale’ o ‘documentaristica’  dell’opera filmica (sin dalle prime teorizzazioni di  Méliès, Gange, Canudo,  Delluc, Lukacs e del misconosciuto Renato May, maestro del montaggio) aveva assodato- per oltre mezzo secolo- qual ‘codice comunicativo’ tra produttore  e spettatore. Spesso sottovalutando che, come in pittura e letteratura, non esiste una sola convenzione espressiva\narrativa,  e nemmeno un lettore\osservatore  ‘trasversale’ per gusto,cultura e classe di appartenenza.  Con “Hiroshima mon amour”, Resnais confonderà proditoriamente (coraggiosamente) le carte in tavola, attraverso la contrastata vicenda amorosa  fra un’attrice francese (Emmanuelle Riva, memorabile) e un architetto giapponese sullo sfondo del Giappone post-atomico.

Occasione allegorica,’apocalittica’,irripetibile per   “rompere con la  tradizione  e imporne una nuova “  che “compenetri dialoghi e monologhi- con voce fuori campo-, fotografia e poesie, doppie realtà fra etnie e culture diverse”,  necessarie a rinnovare la nozione di memoria, ‘sedimentata’ e ‘adattamento’ al presente ostile.

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In tal modo  Resnais dà vita a personaggi che, sul grande schermo, mettono  in crisi le convenzioni dell’illusione filmica,  attraverso la loro stessa presenza dinanzi alla cinepresa, ciascuno con la propria ‘sfacciata’ e sfaldata  identità. Di qui, nuove combinazioni espositive,  realtà aleatorie e percorsi spazio-temporali anti-naturalistici (Resnais non lascia nulla al caso, alla spontaneità,  tutto è frutto di cerebrale   artificio). “Risultati che sono tanti quanti sono i processi che agiscono sulla nostra mente” e che, per farla breve e per meglio catalogare, spingono critici e ricercatori ad etichettarlo‘ regista del ricordo’, limitando – io credo- l’ambito e l’habitat dei suoi interessi, ispirazioni, curiosità ‘dello sguardo e ‘strambe’ frequentazioni di personaggi ‘in bilico’ tra banalità e autodissoluzione. Essendo  indubbio che nessuno come lui sa meglio utilizzare quel misterioso caleidoscopio che è  la memoria sensoriale, a breve e a lungo termine “nello stesso modo in cui la nostra mente dà un ordine al caos reale fra passato, presente e futuro”  trasformando ogni dettaglio,ogni circostanza e fotogramma in una poesia “assurda, ma bellissima”  Esaltando e portando alla ribalta del cinema mondiale volti di attori -feticcio come Pierre Arditi, Sabine Azéma, André Dussolier ,Mathieu Amalric.

“Cuori”, “Amori folli”, “Parole parole parole” e l’ancora inedito “Life of Reley” (recuperanti quel brio ed ironia che Resnais aveva tratto dallo studio  di Ophuls)  sono la sublime  testimonianza di saper riprodurre (avendole vissute)  le prismatiche, inestricabili  sfaccettature (e contraddizioni) dell’uomo contemporaneo, senza la pretesa di potere o sapere ‘sbrogliare’ una simile, confusionaria matassa. Che, talvolta,  si allevia di imprevedibile divertimento, di involontarie ilarità, sempre correlate allo ‘smarrimento dell’io’. Alla volontaria perdita della bussola interiore e delle coordinate spazio\tempo-  verso le terre del paradosso o  delle più involontarie crudeltà che ci attendono al varco di un nuovo amore, di un’insperata speranza.


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