La vittoria degli slogan nel vuoto della politica

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Ne abbiamo viste tante in questi anni, ma mai avremmo creduto di arrivare a questo punto. Mai avremmo immaginato di dover commentare una politica ridotta, in tutti gli schieramenti, a una sorta di perenne televendita, infarcita di slogan, spot da due soldi, parole vuote, promesse roboanti, grida senza costrutto, violenze verbali e volgarità d’ogni genere e, purtroppo, di una drammatica e devastante inconsistenza, della più assoluta indeterminatezza, della più totale incapacità di tradurre in fatti quest’uragano di chiacchiere.

Mai avremmo creduto che  l’Italia, per quanto reduce da vent’anni di berlusconismo, potesse trasformarsi in questa sorta di “videocrazia” in servizio permanente effettivo che brucia qualunque esponente politico abbia una visione e delle qualità amministrative in favore dell’imbonitore di turno, capace di farsi applaudire da folle trasversali e di suscitare sentimenti di unanime ammirazione senza fornire una sola indicazione di dove pensi di trovare le risorse per trasformare in realtà il suo libro di sogni.

E sbaglia chi sostiene che ce l’abbiamo con qualcuno in particolare perché, se questa barbarie si limitasse a una sola persona, potremmo ancora dirci ottimisti: basterebbe non votarla e, dal nostro punto di osservazione, segnalare agli italiani i rischi che essa porta con sé. Il guaio è che oramai il nulla ammantato di pseudo-idee inconsistenti è una caratteristica pressoché generale della politica italiana, frutto avvelenato della scomparsa delle ideologie e di partiti che abbiano un senso, una visione, un orizzonte programmatico e una missione sociale da compiere nell’interesse dei ceti che si prefiggono di rappresentare. Al contrario, abbiamo oramai a che fare con dei partiti “omnibus” che comprendono tutto e il contrario di tutto, posizioni laiche e posizioni da atei devoti, talebani e persone ragionevoli, ex fascisti ed ex comunisti, in un guazzabuglio da far girare la testa che, naturalmente, non riesce a produrre una proposta che sia una degna di essere menzionata. Così assistiamo impotenti allo spettacolo agghiacciante del Parlamento più giovane e rosa della storia che non riesce nemmeno a garantire la parità di genere all’interno della legge elettorale e alla sequela di giustificazioni folli, assurde e insensate che vengono addotte in merito: una più surreale dell’altra, snocciolate senza alcun imbarazzo da personaggi talvolta imbarazzanti, talvolta inquietanti nella loro trasformazione in automi, pur essendo state in passato persone serie, critiche, affidabili, ricche di idee e proposte concrete, tenaci nel portarle avanti e scevre da ogni populismo. Perché poi è sempre lì che si torna: al populismo, alla necessità di ottenere tutto e subito per fini elettorali; e pazienza se questa fretta, questa rapidità forsennata e dannosa si rivela poi tragica per il Paese, costretto a fare i conti con leggi inique e sbagliate, scritte male, pasticciate, sempre a vantaggio delle categorie più abbienti e dei veri artefici di questa crisi e del tutto ostili nei confronti di chi, invece, fatica a riempire il carrello della spesa e ha smesso oramai di credere a qualunque promessa, chiunque sia a formularla.

Un esempio lampante di questa foga riformatrice che si è abbattuta da qualche anno sul nostro Parlamento è rappresentata, ad esempio, dall’introduzione, nell’aprile del 2012, del pareggio di bilancio in Costituzione: una pazzia completa, una sciocchezza senza senso che condanna l’Italia a manovre lacrime e sangue da cinquanta miliardi l’anno per i prossimi vent’anni, ossia il lasso di tempo necessario per ipotecare l’avvenire di almeno due, se non tre generazioni. E nessuno, naturalmente, ha detto nulla, nessuno si è opposto, nessuno si è fermato un attimo a riflettere; come nessuno si è fermato a riflettere sulla costante e crescente precarizzazione del lavoro, sulla devastante riduzione del potere d’acquisto delle pensioni, sulla perdita di prestigio e d’influenza dei corpi intermedi, sulle tristissime condizioni in cui versano le nostre scuole e le nostre università e su tutto un mondo che è sparito dalle cronache, fagocitato dalla furia di chi pensa che basti un blog o uno schiocco di dita e una battuta per mettere a posto le cose.

Ma non è così, lo spiega bene il professor Luciano Gallino in un’intervista a “il manifesto”: “L’impegno di tagliare il debito di un ven­te­simo l’anno per por­tarlo dal 133% al 60% è uno sco­glio che non si può affron­tare. Stiamo entrando in una situa­zione rispetto alla quale la Gre­cia è un’isola felice. L’Italia non è in grado di tro­vare 50 miliardi di euro all’anno da tagliare. È una cosa inim­ma­gi­na­bile fare scen­dere il debito da più di 2 mila miliardi a 900. Acca­drà quello che già acca­duto altrove: tagli alla sanità, i bam­bini affa­mati, la povertà. La porta che abbiamo davanti è di ferro. O la si apre per altre strade o ci si sbatte contro”. E aggiunge: “Dopo il crollo dell’URSS la mag­gior parte della «sini­stra», e di chi aveva lavo­rato con quella parte del mondo, ha fatto di tutto per far dimen­ti­care le vec­chie appar­te­nenze e ha cam­biato campo, facendo un salto a destra. Una mino­ranza in que­sto paese si è alleata con gli inte­ressi delle classi domi­nanti, con quello che defi­ni­sco il par­tito di Davos. Il cen­tro­si­ni­stra ne è stato un buon inter­prete. Basti pen­sare alla riforma delle pensioni”.

Il che sottolinea, se ancora ce ne fosse bisogno, che, oltre alla scomparsa dell’analisi politica e sociale, negli ultimi due decenni abbiamo assistito anche alla scomparsa dell’analisi storica, in un processo di rimozione che ci ha reso tutti non solo più ignoranti ma anche più fragili, più insicuri e del tutto incapaci di porci di fronte alle sfide incommensurabili che il nuovo secolo ci pone.

Ed è qui che molti di noi si fermano a riflettere su se stessi, sulla propria passione politica, sulle scelte, gli interessi e la militanza di una vita; ci fermiamo a riflettere e ci domandiamo: com’è possibile accettare un contesto storico-politico nel quale persino noi, che detestiamo ogni forma di populismo, di qualunquismo e di demagogia, considerandoli i tre cancri che stanno corrodendo le nostre istituzioni e il nostro vivere civile, ci ritroviamo a pensare per un momento che, in fondo, non si salvi nessuno, che siano tutti responsabili, chi più, chi meno, dello sfacelo cui stiamo assistendo? E l’aspetto più frustrante della vicenda è che non c’è altra risposta possibile che non sia l’affermazione di un modello socio-culturale basato sull’apparenza e sulla mediocrità, sull’ipocrisia e sulla pochezza, sull’adulazione e sulla malvagità che si è definitivamente consacrato, a scapito di settant’anni di storia, di secoli di lotte, di decenni di conquiste democratiche e di innumerevoli vite spese invano ad inseguire ideali e valori che la società liquida attuale non è nemmeno in grado di comprendere.


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