Giustizia (non) è fatta

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Nel corso di una rapina, un malvivente prende in ostaggio una donna e il figlio di otto anni e li uccide. L’uomo, Raffaello Beggiato, viene condannato all’ergastolo, mentre il suo complice riesce a fuggire.  Il marito della donna assassinata e padre del bambino, Stefano Contin, non può darsi pace, farsene una ragione. Per quindici anni vive con l’ossessione di quella che lui definisce “Oscura immensità” che precede la consapevolezza del trapasso. Che si presume essere quanto di più terribile possa accedere al finale d’una vita, specie se esso avviene  in modo inatteso e violento, e non nella serenità del sonno o dopo il calvario d’una malattia.

A seguito del trauma dilaniante, Stefano  cambia vita:  lascia il lavoro rappresentante di commercio  e diventa ciabattino (‘al tacco svelto’) in un supermercato. Non  frequenta più nessuno, veste come un clochard, va a vivere in una stamberga  di estrema periferia, dove trascorre il tempo, ormai immoto, a osservare ‘catatonico’ lo schermo televisivo  o  carezzare le foto dei cadaveri dei suoi cari.

Un (brutto) giorno Beggiato, colpito da un tumore inguaribile, chiede la grazia e –di conseguenza- il perdono di Stefano. Ma quest’ultimo, ormai, coltiva soltanto il ‘sogno’ della vendetta,  architettando  un piano (infallibile, sanguinario) per portarla a termine. Ma allora: dove risiede veramente ciò che per convenzione definiamo ‘il male’ ? Nel gesto irresponsabile di un omicida facilmente pronto a dimenticare la sua colpa o nell’ossessione di una vendetta capace di rivelare gli anfratti  più torbidi delle vittime? Dei due uomini protagonisti di questo romanzo-il colpevole e l’offeso-qual è il ‘peggiore’? Avendo oltrepassato entrambi la ‘linea d’ombra’ tra ragione e istinto,  capacità di distinzione tra risarcimento (esiguo)  del ‘diritto’ e nutrimento di un odio senza riscatto. Dunque ingiusto sia per la  parte lesa sia per quella ‘espiante

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Lo ‘spirito’ dei tempi si riflette e si esplicita lungo lo scorrimento di una stagione teatrale abitata dai  notturni fantasmi di Umberto Orsini (“Il giuoco delle parti”), dalle teratologie psico-fisiche del “Riccardo  III” incarnato da Alessandro Gassman con esasperazioni espressioniste, dal la cupo (metafisico?) ‘redde  rationem’ che ispira Glauco Mauri nella trasposizione teatrale (ne riferiremo la prossima settimana) di “Una pura formalità” dall’enigmatico film di Giuseppe Tornatore.     Come se una plumbea  cappa di dolore, insicurezza, vana e cieca rivalsa (verso chi? contro cosa?) pesasse sulla coscienza collettiva di una società derubata dei suoi beni più preziosi , non improvvisabili: la speranza del progettare, la scommessa del procreare, l’energia del ‘fare’  in uno stato di concentrazione mentale del tutto opposto al convulsivo efficientismo, all’esagitata competitività d’una selezione  ‘demografico\classista’ non più darwiniana ma  flagellante e  ‘asetticamente’ maltusiana (come profetizzato nel “Saggio sulla rendita” del 1815).

Del resto il passaggio (rapidissimo) dagli ‘spiriti animali’ del profitto economico agli ‘spiriti imbestialiti’ della persona accecata , nel suo  corto circuito di sofferenza e mancata catarsi (nemmeno il ‘dono’ di elaborare  il  lutto), mi sembra  stia alla base dell’atro e  disarmante  lavoro di drammaturgia che “Oscura immensità” opera sulle ‘vivide spoglie’ del quasi omonimo romanzo di Massimo Carlotto.

Dando luogo ad un micro universo chiuso ed occluso, assediato (come in “Prima del silenzio” di Patroni Griffi\Gullotta) di ectoplasmi ed angosciose  olografie tridimensionali, in un assedio di gabbie mentali dove è arduo distinguere tra chi preferisce esporsi al  ruolo di vittima e chi a quello di carnefice,  nella progressività  ‘ululata’ dell’inversione dei compiti.

E nella ‘necessità’ narrativa che i due antagonisti (‘inseparabili’, come in un film di Cronenberg) non vengano mai a contatto, irretiti e poi divorati da due ‘fiumi in piena’ di monologhi interiori, spasimi e  flussi di coscienza , cui Giulio Scarpati (barba incolta e sguardo di oltraggiata giovinezza) e Claudio Casadio (fisico da legnaiolo, faccia intarsiata di violenze inflitte e subìte)danno i connotati d’un realismo parimenti stoico e insurrezionale. Verso una specie di destino cui è difficile apporre nomi, responsabilità oggettive, lenimento per le ‘avverse congiunture del fato’.

Pertanto, e come nelle premesse di regia  (quasi  attuazione contemporanea d’una biblica dannazione),  lo spettacolo- di scena all’Eliseo di Roma-  è come se  s’inabissasse, proditoriamente ,  nelle più oscure, dostoewskiane ‘ferite mai rimarginabili’ della natura umana , mediante uno stile asciutto e inesorabile. E con cadenze  espositive  serrate, scarne, incalzanti (crudi i  dialoghi, ‘irrespirabili’ le riflessioni di chi ‘si affianca’alla morte). Donde è difficile staccarsi senza restarne turbati, straniti per  tutto il tempo di una -per noi lunga –decompressione mentale.

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“Oscura immensità” di Massimo Carlotto. Prod.Teatro Stabile del Veneto-Accademia Perduta Romagna Teatri. Regia di Alessandro Gassman, scene Gianluca Amodio, costumi Lauretta Salvagnin, luci Pasquale Mari,  videografie e suoni Marco Schiavoni  Interpreti:  Giulio Scarpati, Claudio Casadio- Al Teatro Quirino di Roma


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