Tv, che brutto che fa

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Il nuovo numero della Rivista dell’AREL, l’Agenzia di ricerche e legislazione fondata da Nino Andreatta, è interamente dedicato al tema della Bellezza, con contributi, tra gli altri, di Piercamillo Davigo, Gianfranco Ravasi, Massimo Bray, Giorgio Amitrano, Andrea Granelli. Pubblichiamo qui la riflessione di Marco Giudici dedicata alla televisione…

Seguo poco la televisione, esclamò l’ospite di turno, ma penso che questa vostra trasmissione sia davvero brutta, la più brutta in assoluto. Era il 1997, il programma si chiamava “Macao” e il dissacratore-ammiratore Carmelo Bene. Il varietà di Rai2 usciva stordito da settimane di ceffoni, accuse di vacuità e sgangheratezza. La donzella rotante, come una statuetta di zucchero su una torta nuziale, si porgeva sorridente alla telecamera, attorniata da un coro circolare di ragazze salmodianti. Ahi, ballerina di Siviglia / non ballare resta ferma / ahi, con lo scialle di ciniglia / non scoprire la caviglia / non guardare non far niente… Il drammaturgo assecondò il giudizio, ma per capovolgerlo: le altre trasmissioni, quelle accettate, ritenute riuscite, quelle considerate un po’ meglio di questa, in realtà sono pessime, perché “il meglio del peggio è il pessimo, mentre voi, invece, avete la possibilità di non deludere le aspettative, e da trasmissione brutta diventare trasmissione vuota, incomunicabile, deserta. Basta con questa carica di volontà, evviva la divina stupidità”.

Il divertissement nichilista di Carmelo Bene, accolto come una liberazione dalla conduttrice, un’Alba Parietti in sollucchero, e divorato con gli occhi colmi di meraviglia dalla bravissima Sabrina Impacciatore, è solo uno spunto per tentare di esplorare un territorio complesso e opinabile come la bellezza in televisione. Il merito di questo sketch d’annata è di metterci in guardia dalle definizioni. I gusti variano anche in modo clamoroso a seconda del pubblico, e questo è ovvio, ma variano pure srotolati nel tempo: il bello di un programma può affiorare a distanza di decenni, restituendo significati e messaggi che la visione-fruizione immediata non aveva messo in luce. L’operazione culturale che potremmo erigere a simbolo di tale rovesciamento prospettico è quella di Marco Giusti in campo cinematografico, con il recupero dei b-movie degli anni Settanta e in genere con la felice inaugurazione del filone stracult. Quanto alla televisione, malgrado il suo patrimonio editoriale venga riproposto con generosità nei palinsesti non solo estivi, nessuno si è cimentato finora in una enciclopedia del bello (o del brutto) passato sui teleschermi. Obiettivo troppo ingenuo, o troppo discutibile, o troppo presuntuoso forse. Scarsamente scientifico. Eppure le invocazioni alla bella e buona tv si sprecano, tutte le mattine, a corredo dei trionfi o degli sfracelli del dio auditel. Anche il lessico abbonda di richiami antropologici e sociologici all’estetica, dalla “bella gioventù” di Marco Tullio Giordana alla “Grande bellezza” di Paolo Sorrentino.

Proviamo a individuare qualche ancoraggio di tanto vagheggiamento del bello. “Macao”, per l’appunto, fu un caso di scuola. L’autore Gianni Boncompagni e il direttore di rete Freccero, accettando l’etichetta di brutta trasmissione per antonomasia, rilanciarono la sfida con un sottotitolo provocatorio: “L’unico programma comico che non fa ridere”. Il direttore di Rai Teche Barbara Scaramucci racconta che in quel periodo fu investita da un’esclamazione dell’allora presidente Enzo Siciliano: “Ma non metteremo in archivio anche questo!”. L’illustre critico letterario prestato alla tv si sbagliava, perché quell’esperimento editoriale aveva un suo valore estetico-artistico, andava archiviato eccome, e precisamente alla voce tv-leggera-come-il-nulla speculare alla tv dell’impegno, con i suoi comici fragili e alle prime armi, ma che poi saranno famosi: Cortellesi, Brignano, Impacciatore, Friscia, Ocone. Non meritava oscar, ma nemmeno la gogna dell’oblio.

Del resto anche le riconosciute meraviglie della tv non sempre sono state applaudite come tali al loro sorgere. Il mitico “Processo alla tappa” di Sergio Zavoli fu criticato perché disturbava la corsa, introduceva chiacchiere e polemiche che non c’entrano con lo sport, e via obiettando. Il celeberrimo “Portobello” di Enzo Tortora, antesignano sia della tv del dolore che dei talent contemporanei, fu sommerso dalle critiche per lo smodato sentimentalismo, per la spettacolarizzazione e il paternalismo nel coinvolgimento in trasmissione della gente comune. D’altronde il tema della capacità di giudizio è antico come il concetto di opera d’arte, i corto-circuiti della catalogazione televisiva non sono che l’ennesima manifestazione della soggettività della critica. “Per umiliare il novanta per cento della popolazione, i critici d’arte usano un linguaggio molto simile alla scrittura cuneiforme dei sumeri”, ha accusato l’iperbolico Paolo Villaggio in apertura di un recente corsivo contro Sgarbi e Bonito-Oliva. Con metodo, ma con identico spirito polemico, il linguista Piero Trupia ha osservato che se viene prima l’idea del critico, l’opera non sarà mai compresa nel suo significato intimo e originario, e l’analisi dell’esperto finirà per essere scarsamente utile al pubblico, anzi fuorviante.

Magistrale e controcorrente, la ricerca di Trupia scandaglia i diversi approcci teorici all’arte figurativa, e come sintesi l’editore Franco Angeli ha scelto un titolo con reminiscenza televisiva: “Perché è bello ciò che è bello”. L’intenzione divulgativa coglie nel segno, per l’eco più o meno volontaria al refrain di Nino Frassica nel mitologico e profetico anti-talk show arboriano degli anni Ottanta. A pensarci bene infatti il gioco di parole “Non è bello ciò che è bello, ma che bello, che bello, che bello”, tormentone del comico vestito da frate, è solo apparentemente ingenuo, e può essere letto come rivendicazione del diritto di ciascuno all’emozione primaria, così come ci assale, di fronte a una cosa, a una persona, a un evento, ma anche come derisione dell’acquiescenza corriva verso le mode del momento, che vorrebbero dal pubblico soltanto emozioni estetiche sciocche, superficiali, purché commercialmente redditizie.

E’ dunque difficilissimo pesare il bello, le variabili sono infinite e il tempo spesso giudica da solo. Ciò non significa che non si possano mettere dei capisaldi, almeno come strumenti di orientamento per il presente. Diciamo allora che “Le inchieste del commissario Maigret” resta il migliore sceneggiato e “La piovra” la migliore fiction mai realizzati dalla Rai; che “La notte della Repubblica” di Zavoli è il più bel reportage giornalistico; che a “Quelli della notte” di Renzo Arbore e Ugo Porcelli va la palma del più irresistibile programma di seconda serata; che a “Blob” di Rai3 e a “Striscia la notizia” di Canale 5 deve essere riconosciuto l’onore di migliori invenzioni televisive sulla televisione. Ma se fin qui tutto è ragionevole e universalmente condivisibile, bisogna ammettere che il gioco della classifica del bello è subito finito. L’evolvere dei contesti culturali non consente raffronti alla pari. Si pensi ai generi varietà (termine antico, ma più circoscritto di intrattenimento) e talk. Tra la magnifica nudità in smoking e luci argentate di “Studio Uno” e i megashow archeo-industriali del nuovo secolo come gli ultimi allestimenti per Fiorello o Celentano c’è di mezzo un gap di tecnologia che impedisce di assegnare primati. Stessa cosa per i più celebri programmi di parole, dove il dislivello è situazionale: dal “Maurizio Costanzo Show” a “Porta a porta” le varianti sono state infinite, tutte peculiari. E occorrerebbe non dimenticare nessuno, da “Quelli che il calcio” a “Samarcanda”, da “Amici” al “Processo del lunedì”, daiFatti vostri” a “Che tempo che fa”, a “Ballarò”, e via spuntando i luoghi di dibattito catodico passati alla storia.

D’altra parte, l’impossibilità di una hit parade dei programmi, non preclude la constatazione che anche il cambiamento della televisione è avvenuto e avviene all’interno di quel generale processo di estetizzazione della vita che oggi interroga con tanta vis polemica economisti e filosofi a proposito del ruolo dell’arte. Anzi la tv è forse il luogo topico di questa commercializzazione-democratizzazione del bello. La sua storia coincide con un progresso inarrestabile nella scelta, nella cura, nella ricchezza delle migliori immagini e del miglior racconto, del miglior montaggio e della miglior regia, e ciò naturalmente secondo una dialettica che ingloba il suo opposto, che cioè vede rincorrersi di continuo gusto e disgusto. Una volta sfondato il muro del bianco e nero, non si è entrati semplicemente nell’era del colore, si sono dischiuse le porte di un infinito perfettibile che nel nuovo secolo il digitale ha rilanciato a sua volta verso traguardi da capogiro.

Torniamo un momento, per capire, al dato empirico di cosa vedono, di diverso dai nostri genitori, i nostri occhi sugli schermi tv. C’è un bello sorprendente dei costumi e delle scenografie e delle grafiche, ad esempio, che segna distanze siderali dalla spoglia tv delle origini. E’ stato un cammino lungo ed economicamente dispendioso. Oggi la digitalizzazione di gran parte dei processi ha consentito una ricalibratura dei costi, ma merita ricordare, a campione, che ancora alla fine degli anni Ottanta una singola “tendina” volta-pagina all’interno di un programma costava centomila lire. Parliamo di un effetto grafico che in video si brucia nello spazio di un secondo, che allora andava comprato da una società specializzata e inserito nel procedimento analogico. La conquista degli effetti speciali in televisione, insomma, è avvenuta per tentativi e per tappe. C’è stato chi ha mitizzato il virtual set (primo a servirsene in Italia “Solletico”, programma per ragazzi di Rai1, nel 1996) e c’è chi ha tifato per l’abbandono tout court dello studio, inevitabile specchio di ricchezza o povertà dei mezzi a disposizione di una trasmissione, per dar spazio all’effetto realtà delle conduzioni on the road.

Sul versante del design, si potrebbe ripercorrere location per location, e scoprire che ci sono concept estetici che hanno lasciato tracce durature, reiterate addirittura vent’anni dopo. Basti dire dei set ispirati al minimalismo, come quelli di Santoro e Floris: hanno tutti preso a prestito elementi dell’architettura da magazzino-per-imballaggi dei fortunati “Profondo Nord” e “Milano, Italia”, primi talk “nordisti” della tv pubblica, primi anni Novanta. Oppure, al contrario, ci sono ambientazioni che mostrano elementi di contiguità scenografica non voluta ma evidente, e al tempo stesso nessuna parentela di contenuto. Anche questo appartiene al paradosso del comunicare visivamente, e serve a ridimensionare ogni tentazione esclusivista nello stabilire l’elemento determinante la riuscita estetica di un programma. Decisamente l’abito non fa il monaco, si potrebbe chiosare giocando con le incredibili similitudini classicheggianti, quando non barocche, degli studi di Piero Angela (“Ulisse”, Rai1), Anna La Rosa (“TeleCamere Salute”, Rai3), David Letterman (“Late Show”, Cbs). Accostamenti blasfemi, d’accordo, ma non sono (o non sono state, negli anni) più o meno le stesse colonne in legno, le stesse illuminazioni da appartamento, le stesse scrivanie massicce? Scherzi della messa in scena.

Il viaggio verso la bellezza percepita, come si vede, è il frutto di un intreccio costante  di nuove forme e contenuti, e di nuove opportunità tecnologiche, dove tutto conta ma solo in parte. La tecnologia, isolata, non basta. Lo ricorda Gaetano Castelli, il protagonista-testimone della stupefacente rigogliosità visiva dei grandi show musicali della nostra tv pubblica (ha disegnato diciannove “Festival di Sanremo”, passando per “Canzonissima”, “Fantastico”, “Carramba che sorpresa”, “Stasera pago io”): “C’è un abuso di ledwall ovunque, avverte Castelli; provocano un appiattimento dei sogni degli spettatori, mentre ci mancano le figure artigianali: sono sempre meno i costruttori scenografici… e pensare che eravamo i migliori d’Europa”. Detto da lui, chiamato ora a Parigi a restaurare il Moulin Rouge, è un ammonimento che chi sta mettendo mano alla modernizzazione (con snellimento) della ciclopica tv pubblica farebbe bene a non sottovalutare. I nuovi progetti scenici, spiega Francesca Montinaro, la professionista più quotata oggi in circolazione, prima autrice donna, quest’anno, del Festival di Sanremo, hanno l’ambizione di porsi “come dei veri e propri luoghi emozionali”. L’espressione è degna da sola, per ricchezza di implicazioni, di un posto nella lunga disamina sull’arte e la ricerca del senso, che va da Foucault alla bioestetica di Pietro Montani. E la domanda allora è: lo studio di “Vieni via con me”, costruito per Fazio e Saviano nel 2012 dalla stessa Montinaro, sarà stato coerente, come “luogo emozionale”, con l’intenzione del racconto televisivo, cioè altrettanto capace di generare un contro-movimento verso la libertà-diversità? Oppure sarà stato, come sempre, pura autoreferenzialità spettacolare, an-estetizzante? Al pubblico la risposta.

Di certo la stagione dei grandi format, venduti ai network dalle società di produzione internazionali, ha segnato un’omologazione estetica e un’imposizione di gusti senza precedenti. “Grande Fratello” (Olanda), “Ballando con le stelle” (Gran Bretagna), Isola dei famosi (da “Survivor”, Usa), “L’eredità” (Argentina), “X-Factor” (Gran Bretagna, da “American Idol”, Usa), “The Voice” (Olanda), per citare i più noti, arrivano nelle case di Roma, Londra, Madrid, Berlino, Parigi, Varsavia, New York, Los Angeles, Buenos Aires, Mosca, Pechino, Sidney, Manila, eccetera, molto simili nei loghi, nei colori, nell’arredamento, nella grafica, nelle sigle musicali. E’ un’esperienza comune a molti quella di entrare in una stanza d’albergo all’estero, accendere la tv mentre si disfano i bagagli e vivere un istante di vertigine spazio-temporale: inquadrature, ambientazione, scritte in sovraimpressione, esclamazioni e applausi ti danno per un attimo l’idea che sei a casa, che sullo schermo quello è proprio Carlo Conti o Gerry Scotti. Solo la lingua riporta alla realtà: sei sintonizzato su un’emittente straniera.

L’uniformità di marchio imposto dai format aiuta il messaggio a penetrare con più potenza e velocità nell’immaginario, è garanzia di qualità che travalica popoli e confini, e può perciò totalizzare ascolti calcolabili, sicuri, elevati. Lo insegna la pubblicità. E’ la logica del titolo di un programma tv trattato alla stregua di un formidabile brand dell’abbigliamento o dell’alimentazione, come il marchio Adidas o Coca Cola. E’ la dimostrazione più plastica, questa dei colori della nuova televisione, di una caratteristica molto discussa del mondo globalizzato: il dilagare del conformismo estetico, figlio a sua volta di un consumismo non generico ma fattosi estetico esso medesimo. Anche qui la disputa culturale concerne l’arte prima della televisione. Il flusso di immagini che ci circonda è schiacciante e precario. Più del valore intrinseco della street art di un Bansky, infatti, fanno riflettere le notizie di cronaca della quotidiana cancellazione e riscrittura dei suoi stencil sui muri urbani. Una rincorsa di spray, vernici coprenti, e poi ancora spray, all’infinito, simbolo di una serialità-caducità esasperate del “vedere”. Alcuni, recita un motto del misterioso artista inglese, “fanno i poliziotti perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore; altri diventano vandali perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore da vedere”. Ma mentre le cronache hanno preso a chiamare “vandali” coloro che oscurano Bansky, resta l’interrogativo se la carica evocativa di un messaggio, in questo caso la sua ideologia anti-sistema, sia sufficiente a classificarlo arte in senso puro, quella che Benjamin identificava con l’aura della sua irripetibilità. Lo storico francese Marc Fumaroli parla di una società invasa da “immagini-pleonasmo con pretesa d’arte” e contesta con furore nel suo “Parigi-New York e ritorno” (ora tradotto da Adelphi) il passaggio di testimone nella cultura visiva, a beneficio di un total entertainment scadente e pseudo-artistico.

C’è chi non vede, tuttavia, nel processo di estetizzazione del mondo lo smarrimento dei canoni della bellezza autentica. Sempre un francese, il sociologo Gilles Lipovetsky, parte dai processi economici per constatare che l’industria del consumo “ha incorporato il parametro dell’estetica” e che il capitalismo del nuovo secolo è “un capitalismo di seduzione”. Oggi è la società tutta a essere diventata sensibile all’estetica, anche se poi tendiamo a far coincidere la ricerca della bellezza con la ricerca di sensazioni, e ci riduciamo a meri “consumatori estetici”, pronti ad abbeverarci a ogni stravaganza visiva. Si prenda ad esempio l’ideale di femminilità, incarnato tanto dalla donna fatale quanto dalla modella anoressica, tanto dalla ragazza competitiva e canterina del college (stile “Glee”, Fox 2009) quanto dalle irrequiete ventenni di quartiere in cerca di lavoro e sentimenti (stile “Girls”, HBO 2012).

Finirà che non avremo niente da offrire ai critici di domani, nessun ideale estetico originale, omogeneo, identificativo del nostro tempo storico. E’ la sferzante conclusione che Umberto Eco riserva alla sua “Storia della Bellezza” . Seguendo i mass media esplosi nel vecchio e nuovo secolo, “l’esploratore del futuro – sono le ultime parole del libro – dovrà arrendersi di fronte all’orgia della tolleranza, al sincretismo totale, all’assoluto e inarrestabile politeismo della Bellezza”. Ciò nonostante, a giudizio di Lipovetsky, siamo partecipi di una condizione generale di progresso: “La democratizzazione dell’arte è una realtà” e ognuno di noi vive la sua esperienza di bello, ovunque, in un quadro, in una canzone, in un graffito, in un video e, perché no, in un programma televisivo.

Ma di quale televisione stiamo parlando? Perché è pure vero che, al di là delle operazioni di “bello commerciale” tecnicamente riuscite (abbiamo già rilevato che più risorse economiche e più tecnologia hanno dato vita nei decenni a una tv comunque più ricca esteticamente) si fa largo la percezione che proprio la televisione tradizionale, quella generalista, nella sua reiterazione nauseante del già visto, sia diventata scadente. La stessa sperimentazione di nuovi linguaggi e format sembra avvenire in modo randomico, casuale: viene spacciato per novità quello che nuovo non è, tutto è disancorato da un qualsiasi itinerario progettuale, manca alla base un’idea di televisione. Non è mai stato così, in Italia, in sessant’anni di storia, dal tubo catodico all’avvento del digitale e degli schermi a led.

Rai e Mediaset vivono una crisi di creatività spaventosa, che tuttavia non risulta immediatamente evidente. E’ mimetizzata da molti fattori: dal prevalere di una sofferenza economico-finanziaria che il gigantismo del modello produttivo generalista non aiuta a superare; dall’effetto sismico sugli ascolti della moltiplicazione dei canali e degli strumenti di visione, e dalla loro convergenza; dall’affacciarsi di nuovi competitor come Sky che hanno orientato l’offerta segmentandola per canali specialistici, sofisticando al massimo la cattura dei target di pubblico. La crisi di creatività insomma non fa scandalo perché, malgrado la perdita giornaliera di quote di mercato e l’ancoraggio tutto difensivo al pubblico anziano (non nativo digitale ma coccolato dai pubblicitari per la sua capacità di spesa), i grandi ricavi continuano come prima a essere garantiti dai pilastri della programmazione tradizionale di day time e prime time. Si intensifica l’eventizzazione di singole serate e non si tralasciano mai i passaggi a reddito garantito di una principessa Sissi.

Se questa contabilità del presente dà una sensazione di solidità al pari del bottino giornaliero di un supermercato, specie se corredata da severe operazioni di spending review aziendale, essa tuttavia rischia di non essere sufficiente a farci scavalcare il punto critico. Occorrerebbe uno sforzo coraggioso di investimenti sul lato dell’invenzione e produzione di nuove idee televisive. Non da destinare a improbabili e asettici laboratori per pensare la tv di domani (già visti in passato) che si aggiungono alla burocrazia come corpi separati voluti dall’alto. Ma investimenti economici da immettere – oculatamente, certo – nel flusso produttivo in corso, sul campo, dove vive il professionismo, l’arte, l’artigianato, la curiosità, la passione di preparare ogni giorno la messa in onda del giorno dopo.

Per comprendere come tutto ciò, anche quest’ultima considerazione generale, abbia a che fare con la bellezza, occorre fare un passo ulteriore nella fotografia del panorama televisivo che abbiamo di fronte. Una volta assodato che il bello di un programma, la sua caratura estetica, oggi, è un ingrediente imprescindibile per il suo successo, tanto che nessun genere sfugge a una pesatura da questo punto di vista (due soli esempi recenti di casa nostra: l’importanza di immagini affascinanti nel successo del reality geografico “Pechino Express” di Magnolia per Rai2, e lo sforzo di rigenerare lo speciale giornalistico tradizionale messo in campo dalla serie “Petrolio” di Duilio Giammaria per Rai1, che fa impallidire la vetusta impostazione e confezione di contenitori pure eroici come “Tv7”); una volta assodato, appunto, che ormai tutti comprendono che il bello conta, bisogna sapere che c’è chi è riuscito a fare molto di più del bello episodico, o del bello aggiunto. Qualcuno ha fatto dell’estetica alta il proprio brand, ed è accaduto ancora una volta negli Stati Uniti con i canali delle più celebri serie televisive.

Non serve avere una conoscenza specifica di quell’offerta: anche chi ne è digiuno può andare su YouTube e scorrere ad esempio il lungo elenco di trailer (un minuto l’uno, poco più, poco meno) di “Boardwalk Empire”. Sia pure per frammenti, si entra in un’esperienza visiva di straordinario gusto e intensità.  Reti come HBO, che di quel titolo battezzato da Martin Scorsese ha già prodotto quattro serie, o Showtime (“Shameless”, “Homeland”), o AMC (“Mad Men”), occupano da anni proprio quello spazio commerciale, della fiction cinematograficamente perfetta, che ha consentito loro di consolidare l’audience di nicchia e fare la differenza con la tv dei grandi broadcaster. I nuovi telefilm americani “sono raffinati come opere d’arte”, si è spinto a dire Aldo Grasso in un libro del 2007 ma che sembra scritto oggi. Sotto il titolo “Buona maestra”, per contrasto con la nota espressione di Karl Popper, il critico del Corriere della sera dimostra perché i telefilm, interpretando la complessità e l’irrazionalità del nostro presente, cogliendo lo spirito del tempo, “sono diventati più importanti del cinema e dei libri”. Si riferisce a “E.R.”, a “Lost”, a “Desperate Housewives”, ma oggi lo stesso ragionamento ha valore ancora maggiore dopo gli Emmy 2013 andati a “Breaking Bad” (Amc, da noi su Rai4) e “The Newsroom” (Hbo, da noi su Rai3).

E’ proprio di Hbo la storia più significativa, perché il canale “rappresenta il punto di convergenza di tutte le innovazioni tecnologiche, estetiche e produttive della tv degli ultimi quindici anni”. A sostenerlo è Barbara Maio, la maggiore studiosa in Italia della serialità Usa, nel suo “Hbo. Televisione, autorialità, estetica”, del 2011. Racconta la svolta impressa al canale negli anni Novanta e i successi di “Sex and the city”, “Sopranos”, “Six feet under”, “In treatment”, “True blood”. Scritturati gli autori migliori sul mercato, Hbo è diventata firma autorale essa stessa, in quanto rete, tanto da rivaleggiare con le altre sigle televisive con lo slogan provocatorio “It’s not tv, it’s Hbo”. Tutto è cambiato infatti, siamo entrati nella “post network era”: in passato, spiega Maio, l’autore non aveva potere contrattuale con il network, che pretendeva standard al ribasso. Ma con la frammentazione e l’emancipazione dell’audience il rapporto si è evoluto: “L’autore impone il suo stile all’apparato industriale televisivo e il produttore diventa responsabile artistico e organizzativo dell’opera finale”. Se si scorrono i titoli di testa delle serie oggi in voga, balza agli occhi la centralità di “un creator ed executive producer con controllo economico, artistico, stilistico, dell’opera nel suo insieme”. Naturalmente la strada intrapresa, quella dello “spirito Hbo”, richiede investimenti cospicui (dai due ai quattro milioni di dollari per serie) e può essere considerata poco conveniente, se orientata a un’audience di settore. Ma proprio qui sta la lungimiranza del network via cavo più prestigioso d’America: allargare l’utenza con ogni mezzo, sfruttando tutti i supporti di diffusione, abbracciando ogni opportunità tecnologica.

L’evoluzione dell’offerta televisiva americana, così efficace nel precorrere e guidare verso l’alto i gusti del pubblico, comincia a mietere attivi economici proprio perché quell’industria, diversamente dalla nostra, ha saputo leggere le condizioni di mercato, mobilitare appunto energie specializzate – formidabili showrunner, “fenomeni” della scrittura come David Chase, Alex Gansa, Matthew Weiner, Aaron Sorkin, Vince Gilligan, e poi registi, direttori della fotografia, attori – e ha saputo investire denaro, molto denaro, rischiando su prodotti costosissimi e rivolti a un pubblico ristretto, scommettendo che questa antinomia è tale solo nella fase di start up. La sfida non ha nulla di dissennato, in quanto punta ad arare nuovi campi, a ritrovare il pubblico giovane, aggiungendo accanto ai telefilm le web series, e poi sapienti campagne di coinvolgimento e fidelizzazione. Ultimissima quella di Netflix, che in Inghilterra ha aggredito il segmento giovanile con la proposta di un anno di abbonamento gratis a chi sottoscrive la tessera di “Student ambassador”, che prevede la partecipazione al dibattito sulle serie tv che si svolge su Twitter.

Alla fine, anche nella gara della bella tv affiora la divaricazione tra il passo cadenzato della generalista e la febbrile, nervosa ricerca di novità delle specialiste via cavo, satellite e web. La grande televisione, in fondo, è ancora la somma dei capannoni e dei cantieri zeppi di umanità variopinta descritti da Fellini in “Ginger e Fred”, il suo malinconico affresco del circo catodico di quasi trent’anni fa. Oggi il dietro le quinte di una vigilia che si rispetti non è molto diverso, rispetto a quel coacervo di luci, cavi elettrici e schiamazzi, ammiragli e galeotti, nani e travestiti, onorevoli e frati, mutande commestibili e mucche con diciotto mammelle, in cui il regista fece muovere increduli i ballerini-sosia Marcello Mastroianni e Giulietta Masina. L’albergo che ospitava protagonisti e figuranti si chiamava Manager, lo show che attendeva la luce rossa “on air” era intitolato “Ed ecco a voi”, la città eterna era tappezzata di cartelloni pubblicitari grondanti allusioni sessuali. E’ cambiato molto dal 1985?

La presidente della Rai Anna Maria Tarantola ha chiesto in questo 2013 un’informazione “non appiattita sull’ovvio, né condiscendente e conformista, capace di riportare la notizia in modo equilibrato e veritiero, ma anche di esprimere originalità per incuriosire gli spettatori”. Ha chiesto programmi “di buon profilo culturale, ben fatti e capaci di emozionare e divertire”. Lo ha detto ai dirigenti alla prima convention aziendale promossa dal direttore generale Gubitosi e da lei stessa alla Dear di Roma, a metà settembre. Lo studio preso a prestito per l’occasione (quello di “Tale e quale show”) non aveva niente fuori posto. Nulla era stato lasciato in giro che ricordasse l’approssimazione di un’arca di Noè dello spettacolo, tutto era rigorosamente in ordine e adeguato al contesto business, per parlare di corporate reputation, stato dei conti e strategie. “Abbiamo tolto il trash dalla tv pubblica”, faceva dire qualche giorno dopo a Tarantola in prima pagina il “Messaggero”, caricando la presidente di una responsabilità invero da lei non pretesa. Le sue parole, nel testo dell’intervista, non erano apodittiche quanto nel titolo. Il giornale, come usa, ha virgolettato il senso e non il pronunciato. Ma l’impegno a contenere la volgarità è in campo, meritorio come traguardo in progress, non censorio e rispettoso delle infinite sfumature del gusto cui si è fatto riferimento all’inizio di questa riflessione.

Più del trash e delle sue varianti, deve preoccupare il bello che migra altrove. Il pubblico volta le spalle già per conto suo alle risse forsennate che punteggiano i talk show, e però stenta a ritrovare negli stessi network occasioni di meraviglia positiva. Ciascuno faccia un test: quando è stata l’ultima volta che seguendo l’onda vociante della tv generalista ha provato uno squarcio di stupore emozionale ed estetico? Ogni giorno si ha modo di restare estasiati da qualcosa che fa bene agli occhi e all’anima: che siano le clip oniriche e lunari dell’ultimo “Burning Man”, l’annuale raduno di libertà creativa nel deserto del Nevada; oppure il documentario raffinatissimo “Men at work”, che racconta la storia della celeberrima fotografia degli operai in pausa, sospesi su una trave d’acciaio tra i grattacieli di Manhattan; o ancora la voce tremula di Pete Seeger, padre spirituale del folk americano di Dylan e Baez, che a novantaquattro anni intona “This land is your land” insieme a Willy Nelson e Neil Young all’ultimo Farm Aid, settembre 2013. Sei minuti di poesia pura, una commozione indicibile. Penserete che questo succede su una qualche rete televisiva. Invece no, lo si trova girovagando in rete, sulle piattaforme che aggregano contenuti come YouTube, o Vimeo, la più immaginifica video-palestra creativa “aperta”, in alta definizione, o Vevo, il sito di Sony e Universal specializzato nei video musicali, o Hulu, o Netflix. Nemmeno i mezzi di ripresa sono più prerogativa di pochi, da quando le fotocamere in commercio filmano ai massimi standard qualitativi e senza costare uno sproposito. La grande tv è sotto scacco anche per questo. Un tempo le “macchine” e i “cineoperatori” erano un capitale aziendale, ora invece chiunque si può improvvisare “filmaker”, specie se ha la ventura di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Il vecchio magazzino di telecamere da studio, le mastodontiche Rca, Bosch, Thomson, Sony è stato sconfitto dalla generazione GoPro.

Dunque il problema: se l’esperienza dello stupore estetico tende ad allontanarsi dal mezzo di comunicazione delle immagini ancora più diffuso e tradizionale, va riconosciuto che non ci saranno risanamento economico e sommovimento di governance, per quanto radicali e sanguinosi, capaci da soli di motivare la ripartenza della creatività produttiva. “La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni, ha scritto Albert Camus, ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza”.


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