Giornalisti precari e freelance: passione nel racconto per pochi euro

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“Ritengo una delle fortune della mia vita il fatto di non scrivere per i giornali. Le mie tasche ci rimettono, ma la mia coscienza è soddisfatta” scriveva Gustave Flaubert. Una frase che la dice lunga sulla reputazione dei giornalisti, sin dall’Ottocento. Un mestiere, il nostro, che si ama o si odia, dipende da quale parte della barricata si sta. Da quella col taccuino e con la penna si fa passione, da quella del lettore, a volte, si fa odio indiscriminato e convinzione che il giornalista si arricchisca sulle spalle di chi attende la notizia. C’è chi ci vede come avvoltoi dello scoop, pronti a raccontare false verità, chi pensa che siamo opinionisti in giacca e cravatta sempre sul piede di guerra, chi ancora crede che il nostro sia il lavoro più pagato di questa Terra. Ma c’è chi è affascinato dalla prospettiva di scrivere e allora si avvicina a questo mondo nella speranza di sfondare e finire con la firma in prima pagina sul Corriere della Sera o come volto da prima serata del Tg1.

Peccato che i tempi moderni consentano solo a pochi eletti di potersi avvicinare a un lavoro che stiamo facendo in troppi, ma che sta diventando davvero per pochi. Faccio la giornalista da così tanti anni che quasi mi sono dimenticata della prima volta che misi piede in una redazione con davanti a me la curiosità della scoperta. Rammento, però, che assaporavo il gusto percepibile di esser sempre sul filo del rasoio, l’adrenalina della notizia che arriva improvvisa, la soddisfazione dell’esclusiva su cui si è lavorato per giorni. Sento ancora l’odore pungente del fumo che veniva dalla stanza dei redattori di quel giornale di provincia, perché all’epoca ancora si poteva fumare sui luoghi di lavoro e il ticchettio dei tasti delle macchine da scrivere. Allora fare il giornalista era ancora fare il giornalista, anche se già i tempi stavano cambiando, perché la mia generazione, quella dei quarantenni, ha vissuto il cambiamento della professione al limite della svolta. Ricordo la gioia che provavo ogni volta che mi mandavano per strada a recuperare informazioni. Le corse di notte, col fotografo al seguito, alla ricerca dei fatti di cronaca e la soddisfazione, che durava cinque minuti, al mattino, nello sfogliare la carta ruvida del giornale, con davanti agli occhi il mio capolavoro personale. Soddisfazione che, subito dopo, lasciava il posto alla necessità di trovare altro da scrivere.
E mi tornano alla mente i titoli che non ti venivano mai, i pezzi da correggere dei collaboratori, gli occhielli e i catenacci troppo lunghi e l’orologio che segnava l’una di notte e una chiusura di prima pagina che sembrava non arrivare mai. C’è chi spesso mi ha criticato perché ho detto che quella di noi giornalisti è una missione. Sbaglierò, ma non è forse la nostra la missione di raccontare la verità? Di mostrare ai lettori ciò che accade nel mondo, di informare?
Oggi, per me, niente è cambiato, non è cambiata la passione, non è cambiato il gusto di trovare la notizia, non è cambiata la gioia di sfogliare quelle pagine al mattino. E’ cambiato solo che il mio misero stipendio da redattore, di neanche 1.500 euro mensili, io non lo percepisco più. Il giornale per cui lavoravo ha chiuso nel 2010 e io, oggi, faccio la freelance. Non la precaria, la freelance, perché c’è differenza, anche se in Italia sembra sempre più che le due posizioni siano equiparate. Precario è colui che non ha un lavoro e che saltuariamente scrive o manda servizi a qualche testata. Freelance è chi, invece, lavora regolarmente, ma lo fa per più giornali, radio o televisioni, ma non ha uno stipendio fisso. Il suo guadagno deriva soltanto dai pezzi che riesce a fornire. Spesso ha la partita Iva e non ha rimborsi spese. Sarebbe un bellissimo lavoro, quello che faccio, fatto di inchieste, ricerche, scoop, viaggi in giro per il mondo, spesso in aree di crisi, come l’Afghanistan, dove sono stata di frequente, un lavoro libero, che non ti costringe ad avere capi o legami. Lo sarebbe se in Italia il numero dei giornalisti fosse minore. Perché nel mondo dell’editoria, oggi, c’è troppa domanda e pochissima offerta. Non c’è più posto per nessuno, se non per chi lo ha da anni e a volte neanche più per loro. I giornali chiudono, uno dopo l’altro, in preda a una crisi da cui appare difficile risollevarsi e quelli che hanno la fortuna di rimanere aperti pagano poco e tardi. Prestazioni giornalistiche che vengono retribuite con 2, 3, anche 6 mesi di ritardo e con pochi euro.
Ma fare la spesa, pagare l’affitto, mantenere una famiglia (per chi ce l’ha) non consente di attendere. O si mangia o si muore e allora le vie sono due: cambiare mestiere o emigrare. Ce ne sarebbe anche una terza, quella di realizzare, con fatica, iniziative editoriali nuove, di inventarsi soluzioni all’avanguardia. Ma i tempi non aiutano e, spesso, ci si deve accontentare di ricorrere alle due soluzioni precedenti. Se a tutto ciò si aggiunge, poi, l’accanimento di certi colleghi nei confronti di chi cerca di ritagliarsi il proprio spazio, la cosa diventa ancor più difficile. Qualcuno, tempo fa, mi disse che non devo essere una brava giornalista se ho deciso di andare all’estero e scrivere per una testata inglese. Io non lo so se sono una brava giornalista, non spetta a me dirlo, ma al lettore. Spetta a chi ogni mattina apre il giornale e scorre lungo quelle colonne. Ma so che sono una giornalista dentro, una di quelle che non cambierà mestiere neanche davanti alla fame, alla difficoltà. Sono una giornalista che non si è mai arresa e che ha sempre alzato le chiappe dalla sedia pur di andare a verificare una notizia e approfondirla. E so che oggi, primo maggio, festa dei lavoratori, mi sentirò più lavoratore io di chi, da quella sedia, non si è mai alzato e lo fa solo oggi, per andare a fare una scampagnata fuori porta. Vi chiederete se una soluzione ci sia. Io la mia ve la voglio dire. Voglio parlare ai giovani, a coloro che vedono il giornalismo come una scalata facile al successo: se decidete di intraprendere questa strada fatevi prima un esame di coscienza. Cercate di capire se la notte non dormite pensando a una notizia da scrivere, se vi consumate nell’attesa del prossimo articolo, se sentiate questo lavoro come una malattia che si aggrava col passare del tempo. Se siate disposti a tutto, anche alla fame, pur di farlo. Solo allora saprete di aver fatto la scelta giusta e di non aver tolto la possibilità a chi giornalista lo è davvero dentro, di fare il suo mestiere. E poi voglio parlare agli italiani: comprate i giornali, leggete, ascoltate la radio, guardate la tv, aprite i siti internet di notizie. Non solo perché leggere fa bene e apre la mente, ma perché aiuterete noi giornalisti ad avere la possibilità di continuare a informarvi. Gustave Flaubert, oggi, sarebbe stato preso per un visionario. Un freelance quarantenne, come me, che collabora con 5 testate, arriva a guadagnare non più di mille euro al mese. Direte che non fatica come un operaio. E forse avete ragione. Ma fatica nel vedere come in Italia la libertà di opinione ed espressione stia diventando roba per pochi. Oggi, primo maggio, io non farò festa come tutti gli altri. Lavorerò, per portare a casa quei cinquanta euro che mi sudo rincorrendo le notizie per strada, scattando fotografie e scrivendo aperture. Ma lo farò felice. Perché un domani anche voi possiate avere il gusto, sfogliando le pagine di un giornale, di conoscere come va il mondo.

Il suo blog  www.11onair.com


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