Le conseguenze del ventennio barbaro

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di Roberto Bertoni
Benché da queste parti si continui ad essere ottimisti sulle possibilità di Bersani, o comunque di un esponente del centrosinistra, di formare un governo autorevole col quale presentarsi alle Camere e sfidare apertamente i veti e le ritrosie degli altri schieramenti (primo fra tutti, ovviamente, il Movimento 5 Stelle), bisogna prendere atto di ciò che sta avvenendo in questa convulsa fase della nostra vita politica.

Al termine del settennato di Napolitano, infatti, l’Italia si trova in una situazione di stallo pressoché totale, con un Capo dello Stato impossibilitato sia a sciogliere le Camere (per via del semestre bianco) sia a conferire un mandato, anche solo esplorativo, a chicchessia, essendo lo scontro tra le opposte fazioni al diapason: nei toni, nei modi e nei contenuti delle singole proposte.

Dato questo scenario è, dunque, inutile soffermarsi a lungo sulla scelta disperata del Presidente della Repubblica di nominare due commissioni di “saggi” per tentare di trovare un accenno di intesa tra le parti politiche, almeno su temi cruciali come la riforma della legge elettorale, con il superamento dell’intollerabile Porcellum, e quelle riforme economico-sociali (dalla messa in sicurezza degli esodati alle misure necessarie per far ripartire la crescita e lo sviluppo economico; senza dimenticare il rinvio dell’aumento dell’IVA, il ripensamento organico della TARES e, possibilmente, l’alleggerimento dei vincoli imposti dal Patto di Stabilità Interno che stanno strangolando gli enti locali e mettendo a rischio numerosi servizi indispensabili per i cittadini) delle quali il Paese non può più fare a meno, pena un ulteriore aumento della rabbia e del malcontento della popolazione che potrebbero davvero provocare una rivolta dalle dimensioni imponderabili.

Gli osservatori più maligni hanno ipotizzato che Napolitano abbia assunto questa decisione per guadagnare tempo e demandare la formazione del governo al suo successore, dotato, a differenza di lui, della possibilità di mettere i partiti con le spalle al muro attraverso la minaccia dell’immediato ritorno alle urne. È un’ipotesi oggettivamente malevola ma non del tutto infondata, specie se si considera che, in questo marasma generale, per quanto Berlusconi e Grillo diano l’impressione di non volere altro che una nuova campagna elettorale nella quale dar sfogo al proprio populismo, anche due leader spregiudicati come loro sono costretti a fare i conti con le ambizioni e gli interessi personali dei singoli deputati, a cominciare dai cosiddetti “peones”, ai quali di certo non conviene rituffarsi immediatamente in un’avventura al termine della quale potrebbero ritrovarsi senza seggio. Un discorso a parte, in tal senso, lo meritano il PD e SEL perché è vero che anche i loro deputati e senatori sono stati eletti con il Porcellum ma è altrettanto vero che la maggior parte di essi è stata messa in lista in seguito alle Primarie per i parlamentari e, pertanto, si tratta di persone che hanno già avuto modo di confrontarsi con il proprio territorio e non dovrebbero avere particolari problemi a tornare dagli elettori.

L’incognita vera, quindi, è rappresentata principalmente dall’attuale legge elettorale: una vergogna che, per come stanno le cose, in caso di ritorno al voto in estate, con ogni probabilità ci restituirebbe uno scenario simile a quello odierno, con due partiti che non si parlano a causa dell’ingombrante (e, a quanto pare, non ancora superabile) presenza di Berlusconi e un movimento, quello grillino, che è entrato a far parte delle istituzioni con il preciso intento di sfasciare tutto e, purtroppo, almeno per ora, pare intenzionato a tener fede al proprio programma.

Se dovesse verificarsi un simile disastro, è bene che tutti gli avventurieri che stanno irresponsabilmente ostacolando l’azione di Bersani sappiano che l’Italia sarebbe, di fatto, fuori dall’euro, con conseguenze imprevedibili per la stabilità e gli equilibri del Vecchio Continente.

Senza contare le ripercussioni catastrofiche che un simile scenario avrebbe su imprese e famiglie, con le prime costrette a chiudere quasi in blocco e le seconde sempre più povere, fragili, immiserite, in preda alla disillusione e allo sconforto e desiderose, a loro volta, di sfasciare tutto, eliminare i partiti e demolire quelle istituzioni – nazionali e internazionali – che considerano oramai tiranni da abbattere anziché punti di riferimento da seguire e con cui confrontarsi. Come detto, si rischierebbe la rivolta sociale: una sorta di guerra civile dagli esiti incerti ma, di sicuro, tragici.

Al che, viene spontaneo domandarsi come siamo potuti cadere così in basso. E la risposta possibile è una sola, sulla quale però è opportuno riflettere con attenzione: il disastro cui stiamo assistendo dallo scorso 25 febbraio è l’ineluttabile epilogo del ventennio che abbiamo alle spalle; la logica conseguenza dei troppi anni sprecati, delle troppe occasioni perdute, delle troppe riforme mancate, dei troppi governi paralizzati dai veti di questo o quello, delle troppe leggi “ad personam” del centrodestra, del “troppo” che è stata la misura costante di questi quattro lustri di eccessi ed esagerazioni senza precedenti, al punto che oggi si rende necessaria una cura francescana, seguendo l’esempio del nuovo Papa, per una politica che spesso è, obiettivamente, andata al di là della decenza.

A tal proposito, è bene sottolineare che le responsabilità sono sì collettive ma non certo uguali: il centrosinistra e i suoi governi, difatti, hanno commesso degli errori, alcuni anche gravi (ad esempio, la mancata legge sul conflitto d’interessi), ma sempre in buona fede e lasciando i conti pubblici in ordine e un contesto economico e sociale più che dignitoso; il centrodestra, che nell’ultimo decennio è stato al governo per otto anni e mezzo e ha conservato un’ampia maggioranza (specie al Senato) anche nei tredici mesi del governo Monti, al contrario, ha condotto l’Italia ad un passo dal baratro, lasciando dietro di sé macerie sulle quali sarà difficilissimo ricostruire la moralità e la coesione nazionale oramai perdute. Ed è doveroso far presente anche che, mentre il primo governo Prodi ci ha regalato il sogno dell’euro, il quarto governo Berlusconi ci ha portato fuori dagli standard europei in numerosi ambiti, a cominciare dalla scuola e dalla libertà d’informazione.

In conclusione, se oggi siamo ridotti così, è perché nell’ultima campagna elettorale si sono scontrati due opposti populismi, ugualmente dannosi: quello analogico del Cavaliere e quello digitale di un ex comico e del suo guru che, soffiando sul fuoco della comprensibile rabbia popolare, hanno conseguito un risultato che è andato ben al di là delle loro più rosee aspettative.

Anche noi, pertanto, al pari di Napolitano, ci sentiamo in una situazione di stallo e accerchiamento, con gli occhi dell’Europa e dei mercati addosso e la crescente preoccupazione per l’avvenire di almeno tre generazioni che, andando avanti di questo passo, rischiano di veder ipotecato il proprio futuro.

Per questo, in mancanza di risposte e soluzioni plausibili, ci affidiamo al richiamo di Dario Franceschini alla nobiltà della politica: “Sono veramente stanco di questa teoria assurda in base alla quale l’unico campo della vita in cui non servirebbero la gavetta, il curriculum, l’esperienza e la professionalità, sia la politica. Mi chiedo se sia mai stata chiamata a dirigere una banca, un’impresa o un grande giornale una personalità che non abbia mai lavorato in quel campo, solo perché è stata brava a fare altro”. E ha citato, giustamente, gli esempi degli ex assessori siciliani della giunta Crocetta: Zichichi e Battiato.

Non basta certo un’intervista per risolvere i problemi del Paese, d’accordo, ma è senz’altro un fatto positivo che vi sia ancora qualcuno, in questa Nazione sfibrata, che ripudia con fermezza il dogma del nuovismo e del giovanilismo a tutti i costi.


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