Mali: fatta la guerra, bisogna vincere la pace

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Di Davide Maggiore
Gao, Timbuktu e ora anche Kidal. Le principali città del Mali cadute in mano ai ribelli sono state riprese dall’esercito francese e dalle truppe del governo di Bamako. L’ultima roccaforte, Kidal, è caduta senza combattimenti: quattro aeroplani carichi di soldati francesi hanno preso il controllo dell’aeroporto, prima, e del centro abitato, poi, senza trovare resistenza. I guerriglieri che occupavano la città si sarebbero già rifugiati, sostengono fonti locali, in nascondigli nei dintorni.

Terminata, o quasi, l’avanzata militare, il conflitto maliano è dunque entrato (o sta per entrare) in una seconda fase. Quella che – fin dall’inizio dell’intervento francese – preoccupava gli esperti. Il rischio più grande per François Hollande, già protagonista di dichiarazioni trionfali, e per tutta la comunità internazionale, è di ripetere l’errore commesso da George W. Bush – figura, va riconosciuto, distante dall’inquilino dell’Eliseo – all’indomani della caduta di Baghdad. Dichiarare, cioè ‘missione compiuta’ in maniera affrettata, senza accorgersi che i semi del conflitto restano sul terreno.

Uno lo hanno già indicato ripetutamente, in questi ultimi giorni, ‘Human Rights Watch’ e le altre realtà che hanno denunciato gli abusi compiuti dall’esercito maliano verso numerosi abitanti del Nord, prevalentemente di etnia araba o berbera. “C’è un insieme di aggressioni a carattere razziale”, ha ad esempio dichiarato al settimanale ‘Jeune Afrique’ Florent Geel, direttore per l’Africa della Federazione internazionale per i diritti dell’uomo (Fidh). Episodi, che vanno dal saccheggio all’uccisione sommaria, “basati sulla vendetta o sul racket”, ha spiegato Geel.

Gli eventi degli ultimi undici mesi, in effetti, hanno avuto una conseguenza di cui si è parlato relativamente poco rispetto agli elementi ‘strategici’ della crisi maliana. La ‘questione tuareg’ – vecchia quanto il Mali indipendente – si sta ulteriormente esacerbando e le divisioni tra il nord e il sud del Paese potrebbero diventare ancora più profonde che alla vigilia della guerra. L’identificazione pura e semplice dei ribelli del nord con ‘gli islamisti’, (ripetuta anche da una parte della stampa internazionale) rischia infatti di far rientrare in questa categoria anche i tuareg. Ma se i jihadisti (in particolare quelli di Al Qaeda nel Maghreb Islamico e del Mujao) sono per lo più elementi estranei al Mali, così non è per i tuareg, che anzi da questi sono stati marginalizzati.

I tuareg sono – esattamente come le popolazioni del centro e del sud – abitanti e cittadini del Mali, sia pur di etnie differenti, ed esponenti di una cultura che oltrepassa i confini nazionali. Una soluzione della questione maliana, dunque, non può davvero essere ottenuta senza prestare attenzione alle rivendicazioni degli ‘uomini del deserto’. In questo senso, la sfida è quella di un dialogo che sia il più inclusivo possibile. Ha certamente molte ragioni il presidente ad interim maliano, Dioncounda Traoré, quando, tra i diversi gruppi tuareg, dà una patente di attendibilità ai nazionalisti dell’MNLA e definisce “squalificato” Ansar Dine, fazione del capo storico tuareg, Iyad ag Ghali, convertitosi da anni alla variante salafita violenta dell’islam, e implicato anche nei numerosi traffici illeciti trans-sahariani al fianco dell’emiro qaedista Mokhtar Belmokhtar.

L’islam però non deve diventare l’alibi per un’esclusione a priori, che ignori, ad esempio, la scissione recente che si è prodotta in Ansar Dine, alcuni dei cui membri hanno sconfessato il jihad, fondando il Movimento Islamico dell’Azawad.

Potrebbe trattarsi, certamente, di una mossa opportunistica, ma la via – davvero stretta – che si apre al governo maliano, in questo momento, è proprio quella di vedere, senza preclusioni, quanti possano aderire con convinzione alle promesse di “democrazia,decentralizzazione e sviluppo” fatte da Dioncounda Traoré in vista di un dialogo per la pace.

Senza questa condizione, in effetti, rischiano di risultare inutili tutti gli altri passi che la comunità internazionale sta mettendo in opera per vincere la seconda fase della ‘battaglia del Sahara’. Al Palazzo di Vetro si è discusso di una forza di peace – keeping con mandato Onu da inviare nel Paese, anche se resta l’incognita sul ruolo che la Francia – secondo le parole del ministro della Difesa Jean Yves Le Drian – “ovviamente giocherà” in questo scenario.

Gli Stati Uniti starebbero invece progettando – a riferirlo è sempre ‘Jeune Afrique’ – di inviare droni nel Paese, per sorvegliare e prendere di mira i militanti islamisti, come già avvenuto, tra l’altro, in Yemen, Pakistan e Somalia. Da parte sua il presidente Traoré reputa possibile svolgere elezioni “credibili e trasparenti” il prossimo 31 luglio. Una mossa ufficialmente incoraggiata dai francesi, che va senza dubbio in una direzione diversa rispetto all’approccio militare, ma che non può essere l’unica.


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