Lea Garofalo, c’è attesa per l’esito del Dna del corpo ritrovato in Brianza

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La notizia arriva a ridosso del terzo anniversario della scomparsa della giovane testimone di giustizia
Di Marika Demaria
La notizia che in un campo in Monza Brianza sono stati ritrovati dei resti umani carbonizzati che potrebbero appartenere a Lea Garofalo, non sminuisce la brutalità, la bestialità del reato commesso dalle sei persone che il 30 marzo 2012 sono state condannate in primo grado all’ergastolo. La prima Corte d’Assise del Tribunale di Milano, presieduta da Anna Introini, condannò infatti i tre fratelli Carlo, Vito e Giuseppe Cosco, Carmine Venturino, Massimo Sabatino e Rosario Curcio per avere, a vario titolo, sequestrato, seviziato, interrogato, ucciso con un colpo di pistola alla nuca Lea Garofalo. Secondo la requisitoria del pubblico ministero Marcello Tatangelo, la donna era poi stata trasportata in un terreno a San Fruttuoso, e il suo corpo sciolto in cinquanta litri di acido. Le indagini in questi mesi non si sono fermate, portando a una svolta: il ritrovamento, appunto, di resti umani carbonizzati oltre ad alcuni oggetti personali. C’è attesa per l’esito dell’esame del Dna, ma le forze dell’ordine ammettono che le probabilità che si tratti di Lea Garofalo sono “elevatissime”.

La notizia arriva a ridosso del terzo anniversario – che si celebrerà il 24 novembre –  della scomparsa e della morte della giovane donna – 35 anni all’epoca dei tragici fatti –  che ha avuto il coraggio di ribellarsi al sistema della ‘ndrangheta. In vista della tragica ricorrenza, in questi giorni la società civile si è mobilitata, dando vita alla manifestazione “’Ndrangheta, ora basta! Milano ricorda Lea Garofalo”: una settimana di incontri e dibattiti che culminerà con l’appuntamento, alle 14.30 di sabato 24 all’Arco della Pace, dell’evento “Un albero per Lea”, che sarà piantato dai ragazzi del presidio intitolato alla coraggiosa donna. Da ricordare, infine, il concerto “La musica sfida la ‘ndrangheta. Ricostruire armonie distrutte per ridare corpo a Lea”, alle 20.30 presso il Conservatorio Giuseppe Verdi.

La storia di Lea Garofalo. Nata nel 1974 a Petilia Policastro, nel crotonese, a nove mesi rimase orfana di padre, ucciso in un regolamento di conti tra faide avverse. Tantissimi anni dopo, nel 2005, la stessa sorte toccò al fratello Floriano. Lea, cresciuta in una famiglia secondo cui “il sangue si lava con il sangue” a quattordici anni conobbe Carlo Cosco, di tre anni maggiore di lei. All’inizio degli anni 90 si trasferirono a Milano: Lea sperava di iniziare una nuova vita, forte anche della nascita della loro figlia Denise. Ma i suoi sogni furono ben presto infranti. Il convivente gestiva infatti, insieme al fratello Giuseppe, lo spaccio di droga nella zona di piazza Baiamonti. Non solo. La famiglia occupava abusivamente (e ne subaffittava altri) alcuni appartamenti di edilizia residenziale pubblica dello stabile di viale Montello 6 di proprietà del Policlinico di Milano. ŸÈ proprio in quei luoghi che si consumò il delitto di Antonio Comberiati, “collega” in affari dei Cosco ritenuto troppo pericoloso. “Non voleva morire quello, aveva il diavolo in corpo” disse Giuseppe Cosco una mattina tornando a casa dal fratello Cosco, davanti a Lea Garofalo. Fardelli troppo grandi da sopportare, pesi schiaccianti che indussero la donna a recarsi dai Carabinieri e a denunciare il suo convivente e i suoi fratelli, con la speranza che le sue testimonianze sfociassero in un processo. Non sarà così. Lea e la figlia Denise saranno inserite in un programma di protezione e costrette – prive della propria identità – a girare per l’Italia, in solitudine,  per anni, fino a quando il programma non fu revocato. Lea fece ricorso al Tar, ma nel 2006 decise, ormai sfiduciata nei confronti dello Stato, di uscire definitivamente dal programma di protezione. Al suo fianco c’era sempre la figlia Denise, per la quale sognava un futuro migliore, diverso. Con cui sognava di emigrare, magari in un Paese caldo, come l’Australia. Confidenze che esternerà anche all’avvocato Enza Rando dell’ufficio legale di Libera (associazione a cui Lea Garofalo si rivolse nel 2008), che ha rappresentato in fase processuale la costituzione di parte civile di Denise Cosco, oltre ad essere lei stessa chiamata a testimoniare davanti alla Corte. Confidenze sulle quali la difesa compatta degli imputati fece leva in maniera bieca, sostenendo che “mentre noi siamo qui a parlare di Lea Garofalo, magari lei sarà in Australia, o chissà dove, in vacanza. Insomma, stiamo perdendo tempo”.

Proprio per inseguire il sogno di regalare alla figlia un futuro diverso, Lea decise di incontrare Carlo Cosco a Milano. Era novembre 2009. Quel viaggio si rivelerà una trappola. L’incontro del 24 novembre fatale. Nei giorni, nei mesi seguenti, Denise, pur comprendendo l’accaduto ha vissuto con il padre e con la sua famiglia, “perché queste persone, o te le fai amiche o ti annientano. E io non volevo fare la fine di mia madre” dichiarò la stessa ragazza nel corso della sua deposizione, nel settembre 2011, indicando gli imputati – tra cui appunto suo padre, i suoi zii e il ragazzo (Carmine Venturino) per il quale nutriva una simpatia ma che poi scoprì essere stato assoldato da Carlo Cosco affinché la controllasse – come colpevoli dell’omicidio di sua madre, di Lea Garofalo.

Se l’esame del Dna confermerà la tesi investigativa, alla donna potranno essere garantiti un funerale e una degna sepoltura, a Denise un luogo dove deporre un fiore per sua mamma. Intanto, è in fase di preparazione il grado di appello del processo.

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