Rachel Corrie: il senso di una sentenza

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E’ comprensibile il vasto coro di critiche alla sentenza del tribunale israeliano di Haifa che non ha riscontrato alcuna intenzionalità nell’operato della ruspa che ha mandato al creatore Rachel Corrie, la giovane attivista che voleva impedire a quella ruspa di distruggere case e campi palestinesi per “security reason”. Il trattorista operava in zona di guerra e non ha visto, ha detto la corte: “spiacevole incidente, punto e basta.”

Le critiche in certi casi si uniscono allo sgomento: come può accadere che un paese che in tantissime circostanze ha dimostrato il coraggio e la forza del diritto, come ad esempio con la celebre sentenza di condanna da parte della Commissione Kahan dopo la strage di Sabra e Chatila a carico di Ariel Sharon (non seppe né prevenirla né evitarla) , come è possibile che un paese del genere arrivi a negare che quel trattorista ha ucciso, se non intenzionalmente, di certo preterintenzionalmente?

E invece accade, e accade proprio a causa dell’occupazione, incompatibile con il diritto: quell’occupazione contro la quale lottava Rachel Corrie. Un’occupazione che non fa male solo ai palestinesi, ma anche a Israele e agli israeliani. E questa sentenza è la migliore conferma della bontà della causa per cui è vissuta, e purtroppo anche morta, Rachel Corrie: l’impegno pacifico contro un’occupazione che fa male all’occupato e anche all’occupante.

Guarda caso proprio oggi otto minori israeliani sono stati rinviati a giudizio per aver aggredito e picchiato fino a ridurlo in gravi condizioni un diciassettenne palestinese.


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