Usa, lo chiamavano il nuovo Kennedy, rischia 30 anni

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di Guido Moltedo
Era una grande amica di John, che come tutti gli intimi chiamava Jack, e di Bobby Kennedy. E lui le ricordava i due fratelli più celebri della politica americana. Anzi, per la ricca ereditiera, John Edwards era «la migliore combinazione dei due». Così, nel 2006, gli mise a disposizione il jet personale per farsi raggiungere nella sua tenuta in Virginia. E gli chiese che cosa avrebbe potuto fare per aiutarlo a conquistare la Casa Bianca. Gli promise “solo” un milione di dollari, scusandosi e dicendosi mortificata per non potergli dare di più. Per l’allora novantasettenne (oggi 101 anni) Rachel “Bunny” Mellon, miliardaria filantropa, John Edwards «sarebbe stato il salvatore dell’America». Mica solo per lei ma per molti americani, specie giovani e operai. Edwards era una delle stelle più luccicanti nel firmamento progressista americano.

Una grande promessa, non avesse incrociato sulla sua strada Barack Obama. I denti bianchissimi di un perenne sorriso, la capigliatura sempre in perfetto ordine (e sì che si faceva raggiungere appositamente, ovunque fosse, da Joseph Torrenueva, un barbiere di Beverly Hills: 1200 dollari un taglio), l’aspetto ricercatamente kennediano (aveva ragione Mellon), la sicumera oratoria del bravo avvocato, la retorica sulle “due Americhe” (l’America di coloro che hanno e quella di coloro che non hanno), la narrativa del legale di azioni collettive contro i giganti del farmaco e la fama di family man esemplare, marito premuroso e padre affettuoso di tre figli: insomma, Edwards aveva tutte le carte in regola per aspirare alla presidenza degli Stati Uniti, dopo una brillante seppur breve carriera di senatore della North Carolina.

Infatti, ci provò due volte, a scalare la montagna della Casa Bianca, la prima arrivando alla sommità dell’incoronazione democratica come vice di John Kerry. La seconda andò peggio, avendo di fronte due pesi massimi come Barack Obama e Hillary Clinton. Dovette ritirarsi dalla corsa, ma, vista la sua grande popolarità e il seguito in settori elettorali cruciali, coltivò la speranza di ottenere di nuovo la nomina a numero due del ticket presidenziale o, in subordine – segno della sua sconfinata irresponsabilità – la poltrona di ministro di giustizia.
Oggi l’ex-star della politica democratica rischia di far la fine di un serial killer. Quel milione di dollari donato dall’amica Bunny non servì a finanziare la sua campagna elettorale, ma a coprire uno scandalo che, se scoperto, avrebbe compromesso la sua corsa presidenziale, anzi, la sua carriera politica. Un reato estremamente grave in America, la distrazione di fondi elettorali a scopi personali. E infatti Edwards, da lunedì scorso, è in un’aula del tribunale di Greensboro, nella sua North Carolina, accusato di frode elettorale da quel dipartimento di giustizia che sognava di guidare nel bel mezzo di un incubo: il terrore che la sua relazione extra-coniugale con un’assistente, Rielle Hunter, dalla quale ebbe una figlia, Frances Quinn, potesse essere rivelata dai tabloid, non solo mentre era sotto i riflettori della campagna elettorale, ma mentre la moglie Elizabeth combatteva disperatamente la sua battaglia contro un cancro al seno. Con l’aiuto del suo assistente-factotum Andrew Young cercò di tenere nascosta la vicenda.

Young, quando l’affaire fu scoperto dal National Enquirer, si prestò perfino ad assumersi la paternità di Frances Quinn. Nel frattempo erano volati via centinaia di migliaia di dollari per tenere Rielle e la bimba al riparo dai reporter pettegoli: spostamenti continui in jet privati, dimore costosissime, spese mediche. I dollari di Bunny, più la doviziosa provvista messa a disposizione di Edwards da Fred Baron, ricco avvocato texano (defunto) nonché tesoriere della campagna di Edwards, a questo erano serviti. «La questione al cuore di questo caso – afferma l’esperta legale Tara Malloy – è se quasi un milione di dollari usato a beneficio di Rielle Hunter, la sua amante, debba essere considerato un dono personale a Edwards o piuttosto un contributo alla sua campagna presidenziale del 2008». Se riconosciuto colpevole, Edwards rischia una condanna fino a trent’anni e dovrà pagare quasi duecentomila euro in risarcimenti.

In America, chiunque sia in politica sa bene che i candidati a cariche pubbliche non possono accettare donazioni superiori al limite legale, che, nel 2008, era di 2.300 di dollari. Edwards è avvocato e, da senatore, sostenne con convinzione la campagna condotta dai colleghi McCain e Feingold per restringere ulteriormente i criteri di finanziamento elettorale. Che fosse all’oscuro di queste norme è ridicolo.

Possibile che non sapesse la destinazione reale delle elargizioni provenienti dai due “fat cat”, i due ricconi? Già, Edwards non era al corrente delle manovre insabbiatrici condotte dal suo braccio destro, Young, divenuto poi il suo principale accusatore e oggi protagonista del processo di Greensboro. Questo sostiene la giovane avvocato Allison Van Laningham, mandata in prima linea, a dispetto della sua minore esperienza rispetto a due principi del foro come Alan Duncan e Abbe Lowell, i più anziani del collegio di difesa. Con Cate, la figlia di Edwards, anche lei avvocato e membro informale del collegio, ha innanzitutto il compito di scolorire la principale accusa di fronte alle sette donne delle giuria (nove maschi), non legale ma morale, che grava sull’imputato: aver tradito la moglie sofferente di cancro (morirà nel 2010). Edwards, sostiene la legale, non sapeva, perché «correre per la presidenza non è un picnic» e nella campagna del 2008 era «intensamente occupato nel corso di tutte le parti della giornata e aveva un’agenda piena zeppa di impegni». Eppure, ironizza su Politico Josh Gerstein, «trovava il modo di ritagliarsi un po’ di tempo per sé anche nel bel mezzo della sua logorante corsa per la Casa Bianca, e per avere una protratta storia con Hunter, far da padre a sua figlia e perfino girare un filmino a luci rosse» (oggetto di una disputa legale tra Young e Hunter finita con l’accordo di distruggerlo).

In aula Edwards è sempre quello di una volta. Disinvolto, faccia ancora da ragazzo, capelli solo con qualche filo bianco, le chiacchieratissime scarpe Bruno Magli, partecipa attivamente al collegio di difesa, confabulando con i colleghi, con la figlia Cate, anche nella fase preliminare della delicata scelta dei giurati. Presenti in tribunale anche i genitori, il padre operaio protagonista di tanti discorsi autobiografici dei bei tempi elettorali.
Un’accurata strategia comunicativa tesa a mostrarsi – la figlia accanto – il contrito protagonista di una debolezza umana non di un crimine. Gli crederà la giuria? Il caso è atteso dai tanti politici che oggi chiedono una legislazione più lasca in materia di donazioni. Sostiene Jerry Goldfeder, esperto di questioni legali riguardanti le elezioni: «Il governo deve provare che Edwards conosceva fin nei dettagli le leggi che regolano le campagne elettorali e che intenzionalmente le ha infrante. E quindi ha di fronte a sé una strada tosta. Può anche non essere una figura simpatica, Edwards, ma non significa che dovrà andare in galera perché ha tentato di tenere nascosta una sua relazione»

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