Repubblica fondata sul lavoro da vivi, morti e suicidi

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di Nadia Redoglia
Formidabili quegli anni in cui si diceva, e s’otteneva, il “si lavora per vivere” (a parte, per di più, il folcloristico messaggio istituzionale affidato alla coppia Celentano-Mori: “chi non lavora non fa l’amore”). C’abbiamo creduto: le istituzioni legiferarono sui diritti dei lavoratori garantendo loro sicurezza contrattuale per dignità morale e fisica. Fummo talmente suggestionati che facemmo anche più l’amore, mettendo al mondo più figli.
Il tempo (galantuomo?) ci ha consegnato morti per lavoro d’amianto, da esalazioni tossiche e cancerogene, da incendi, scoppi e deflagrazioni, da cadute per impalcature e ponteggi e da infinito quant’altro meritevole di prima pagina (ma anche no), cui va doverosamente aggiunto l’oceano di bianchi e neri “in nero” (perciò) facilmente svicolanti dalle statistiche. Sono pagine di storia per dichiarare a tutti gli effetti che “si lavora anche per morire”: autentico licenziamento per giusta causa, con impossibilità (al dio piacendo) di reintegro.   I figli che mettemmo al mondo in quel periodo là sono diventati grandi.
Troppi tra questi, sempre di più, oggi si stanno suicidando: dopo aver immediatamente archiviato la (illusoria) fase del “si lavora per vivere” e tenuta sotto controllo quella del “si lavora anche per morire”, ci hanno sbattuto in faccia la cruda realtà del momento: “si muore perché non si lavora più”.
Gli “eredi” di coloro che istituzionalmente prima e contrattualmente dopo ci garantirono che questa è, e sempre sarebbe stata, una Repubblica fondata sul lavoro, oggi ci stanno (tecnicamente) spiegando che mai fu specificato il tipo di “lavoro” -evidentemente non uguale per tutti- su cui s’era fondata questa Repubblica…


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