Le radici di Fellini – di Gianfranco Miro Gori

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Quale fosse il rapporto profondo che Federico Fellini intrattenesse con il dialetto, cioè le radici intrecciate con la propria lingua e la propria città di nascita, lo scoprii con maggior precisione durante la grave malattia che lo colpì all’improvviso e per la quale fu ricoverato all’Ospedale Infermi di Rimini. Dopo essersi sottoposto a un complesso intervento chirurgico per un aneurisma addominale all’Ospedale Cantonale di Zurigo, Fellini non ebbe la pazienza di completare la convalescenza in Svizzera, come gli consigliavano insistentemente i medici, e decise di rientrare in Italia. Non a Roma, nella sua casa di Via Margutta, come tutti supponevamo, ma al Grand Hotel di Rimini,  nella suite che il proprietario commendator Arpesella gli aveva riservato “vita natural durante” in seguito al successo planetario del film Amarcord, grazie al quale il suo albergo era diventato il secondo più famoso al mondo dopo il Plaza di New York.

Al Grand Hotel il 3 agosto, il regista fu colpito da un ictus cerebrale da cui si salvò per miracolo, restando tuttavia semiparalizzato. Quando accorsi a trovarlo il giorno successivo, fui ammesso nella stanza n. 1 del reparto di Medicina, diretto allora dal dott. Angelo Corvetta. Federico era disteso a letto, con il volto contratto e deformato, l’occhio sinistro semichiuso, e metà del corpo dal braccio alla gamba sinistra, privo di sensibilità. Ma era vigile, lucidissimo, e non aveva perso nulla della sua memoria prodigiosa. Avevo il cuore in tumulto quando mi chinai per baciarlo e lo sentii sussurrare: “In questa stanza è morta mia madre”. Nella camera si alternavano senza sosta le infermiere: il decorso della malattia era seguito istante dopo istante, il malato non veniva mai lasciato solo, e lo sciame di ragazze in camice bianco intorno a lui, ciascuna con un compito preciso di assistenza e di accertamenti, aveva creato un clima rassicurante, confortante, persino incongruamente allegro. Le infermiere gli parlavano in continuazione, gli si rivolgevano con familiarità, gli annunciavano ciò che stavano per fargli, lo coccolavano letteralmente, spandendo intorno un sentimento di vitale ottimismo. Prendendosi cura di lui scherzavano persino tra loro, coinvolgendolo, come se fosse una festa tra amici e qualche volta replicando spiritosamente alle sue sollecitazioni con battute grassocce, da compagne di scuola. Sembrava di assistere a una sequenza di Otto e mezzo, quando il protagonista stressato viene sottoposto a un’accurata e disinvolta visita di controllo dai medici delle Terme; o meglio ancora alla scena dell’Harem, con Mastroianni avvolto in un lenzuolo e il cappello in testa, che, schioccando la frusta doma un inquieto e amoroso zoo femminile sul punto di rivoltarglisi contro. Una variazione concertistica, il pubblico ricorderà, della sequenza ambientata precedentemente nella casa di campagna della nonna Franzscheina, a Gambettola, dove il regista bambino viene immerso nella tinozza del mosto, e poi strofinato con il lenzuolo bianco prima di essere adagiato sul lettone dalle donne di casa, amorevoli, brusche e sensuali, che lo chiamano affettuosamente “E’ mi pàstroc… E’ piò bèl pastròc…”.

Federico a Rimini, nella sua stanza d’ospedale, girava intorno l’occhio buono seguendo divertito il garrulo andirivieni delle ragazze, lo scoppiettante affaccendarsi in quel garrito incessante e lieto come una canzone, una dolce nenia. E riprendendo di sua iniziativa il filo del discorso, rispondendo alla domanda preoccupata che gli avevo appena rivolto, mormorò: “Lo vedi perché sono voluto tornare a Rimini? Ascoltale. E’ proprio per poter sentire questi suoni”. Le ragazze infatti parlavano quasi tutte se non in dialetto, con una forte inflessione romagnola, lo trattavano come uno di loro, lo stringevano in un abbraccio verbale, musicale che lo incantava. Forse le interessate non ne sono del tutto consapevoli, ma per  gran parte dei maschi italiani l’eloquio romagnolo possiede una potente carica erotica, una misteriosa promessa di felicità. Federico in loro compagnia stava rientrando nel grembo protettivo, melodioso, dell’infanzia, e vezzeggiato in quel tiepido nido sembrava già in corso di guarigione.

Mi è tornato in mente questo episodio, che ho già narrato altre volte e specialmente nel mio romanzo FEDERICO F.,  leggendo, anzi divorando in un baleno il bel libro di Gianfranco Miro Gori appena uscito con la Società Editrice «Il ponte vecchio» e intitolato: LE RADICI DI FELLINI romagnolo del mondo (pp. 140,  euro 12). Da storico del cinema, poeta e studioso della lingua, Gori cerca di recuperare la presenza del dialetto romagnolo nei film del Maestro, ripercorrendoli uno a uno e scovandone anche le minime tracce, che sfuggono di necessità al grande pubblico. Un’analisi accurata volta a dimostrare quanto il mondo dell’infanzia abbia modellato nel profondo ogni opera dell’artista, benché Fellini ad appena diciannove anni avesse voltato le spalle a Rimini, al “borgo”, e di fatto non vi fosse tornato più se non per rapide, sporadiche e clandestine incursioni. Tuttavia di Rimini non si libererà mai più, intessendo ogni storia con i fili impalpabili di una “memoria inventata”, una Rimini ricostruita sul set, ma proprio per questo assai più vera. Viene spontaneo rievocare il poeta Attilio Bertolucci: “Assenza più acuta presenza”.

Guizzi, improvvisi zampilli di dialetto riminese, affiorano anche in opere in apparenza lontanissime da qualsiasi coinvolgimento autobiografico. Se era naturale aspettarsi qualche dialogo in romagnolo ne I Vitelloni, ed è del tutto giustificato che in diletto sia il parlato di Amarcord, sorprende invece che un sottofondo vernacolare sia rintracciabile addirittura in Paisà (episodio del partigiano giustiziato, girato a Savignano), di cui Fellini era stato soltanto sceneggiatore; oppure che suoni lontani echeggino ne La strada, o affiorino ancor più espliciti ne La dolce Vita (l’incontro a via Veneto tra Marcello e suo padre, interpretato da Annibale Ninchi). E ancora che in Otto e Mezzo, in tutte le sequenze dell’infanzia, l’idioma natio emerga come un gergo chiuso, sciamanico, oracolare.

Il dialetto funzionale alla storia riemerge apertamente ne I Clowns e  in Roma, precursori, e quasi cartoni preparatori di Amarcord, il film dedicato fin dal titolo alla memoria. Nel quale finalmente apprendo dalle trascrizioni di Gori quali siano le parole pronunciate dalla suora nana per convincere lo zio Matto a scendere dall’albero. In quanti me l’hanno chiesto, perfino dall’America! “Ó! T’ci divént mat da bón! Vén sòta, ch’a n’ò vóia ad zughé, sa stal patachèdi! (Oh! Sei impazzito davvero! Scendi, che non ho voglia di giocare con queste patacate!).

In Casanova, nella sequenza del ventre della balena, a Londra, c’è l’inno alla ‘mona’ composta da Tonino Guerra, una poesia che prima di essere italianizzata e colorita di accenti veneti da Andrea Zanzotto, terminava con un inequivocabile: “Osta la figa!”.

L’impronta archetipica, originaria, torna nella Città delle donne con la prorompente Rosina di Verucchio, dalle grazie ‘di casa’; e il mondo magico dell’entroterra riminese riappare poeticamente nel film testamento La voce della Luna. Fino ad Amarcord, sottolinea l’autore del libro, il rapporto tra i riminesi e Fellini è stato molto contrastato, avvelenato da un sospetto insanabile nei confronti di un tradimento; gli irriducibili concittadini pur di sottrarsi alla soggezione verso l’artista di fama internazionale, si impedivano di riconoscerne la clamorosa affermazione lontano della mura del borgo. E alla presenza nei film dei suoi volubili richiami al passato obiettavano: “La n’era miga acsé” (non era mica così). Poi la riconciliazione era avvenuta, anche grazie alla presentazione di E la nave va, in prima mondiale sulla terrazza del mitico Grand Hotel all’inizio degli anni Ottanta (ma anche in quel caso fu una riconciliazione truccata, con il dono della Città al suo figlio illustre di una casetta sul porto gravata di ipoteche). Gianfranco Miro Gori arricchisce il suo corredo di altre associazioni parlando del rapporto del regista con il Cinema Fulgor (in procinto di  diventare il polo museale cinematografico di Rimini) “che non è semplicemente un luogo fisico ma il posto della mente”; ne evoca i personaggi, i miti femminili, “la moglie del farmacista” che ne La città delle donne veniva spiata dai ragazzi attraverso un foro praticato di nascosto nel capanno.  Si sofferma sulla passione di Federico per il disegno, già in tenerissima età; esamina le fotografie di Davide Menghini il super paparazzo di Rimini; e cita i film dell’imprinting, a cominciare da Maciste all’inferno  visto sulle ginocchia del padre, le immagini conturbanti che avrebbero improntato la vocazione del futuro cineasta; per rivelare alla fine il nitido ordito romagnolo celato tra i fotogrammi dei suoi capolavori. Delinea in tal modo l’insorgere di una poetica così incontrovertibilmente personale da deflagrare all’uscita di La Dolce Vita  come uno vero “shock culturale”; così scrive in Piero Meldini nella raffinata postfazione parlando con sincerità di se stesso e spingendosi ad affermare: “Al paragone quasi tutto il cinema ‘impegnato’ italiano del dopoguerra, compreso quello neorealista, appariva manierato ed estetizzante, e anche il filone realista del cinema americano sembrava sostanzialmente reticente e conformista”.


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