Sandro Ruotolo: “Giancarlo era un cronista, un cronista di strada”

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Che la camorra uccidesse a Napoli, negli anni Ottanta, non era una novità. Che la camorra uccidesse un giornalista, però, non era mai successo. È la Napoli del post terremoto e i clan puntano gli occhi sugli appalti. Giancarlo Siani ha appena 26 anni, è un piccolo cronista di Torre Annunziata che, tassello dopo tassello, ricostruisce il quadro di interessi e potere, mafioso e politico, che controlla il territorio: Giancarlo ricostruisce il sistema camorra. Nei suoi articoli il giovane cronista racconta quotidianamente le viscere di Torre Annunziata, studia i rapporti tra politici e camorra e li denuncia. Su questo stava lavorando quando i clan decidevano che il giornalista di Torre Annunziata diventava scomodo, troppo scomodo. Degli anni di precariato del giovane giornalista, della Napoli in cui si muoveva Giancarlo e delle dinamiche che stava portando a galla ne parla ad Articolo 21 Sandro Ruotolo, giornalista ‘giornalista’ finito sotto scorta perché dalla parte giusta.

Chi era Giancarlo Siani?
Giancarlo era un cronista, un cronista di strada. Io l’ho conosciuto e ho questo ricordo di un’assemblea al Circolo della Stampa, all’epoca noi eravamo rinnovamento sindacale che era la componente più democratica dell’Associazione Nazionale della Stampa. Lo ricordo sui luoghi degli omicidi, noi avevamo tre o quattro anni di differenza. Avevamo una persona che ci univa ed era Amato Lamberti, un sociologo [fondatore e direttore dell’Osservatorio della camorra]. Io ero alla Rai di Napoli, erano gli anni Ottanta, gli anni del post terremoto, della camorra, delle guerre di camorra e Torre Annunziata era un punto nevralgico, insieme a Castellamare, nell’area vesuviana. Qui c’era questo clan di Valentino Gionta, mentre a Castellamare c’erano i D’Alessandro. Poi c’è tutto il discorso del precariato, di Giancarlo senza garanzie. Giancarlo iniziava come un po’ tutti all’epoca, perché le scuole di giornalismo sono arrivate parecchi anni dopo. Lui era proprio il rappresentante di una nuova generazione di cronisti – che per quanto riguarda la tv era rappresentato dai tg regionali, da Rai Tre che era appena nata –, quella che rompeva un po’ lo schema del giornalista da scrivania.

Giancarlo è stato il primo e unico giornalista ad essere ucciso dalla camorra. Perché? Aveva scoperto i nervi sensibili di un sistema e li aveva denunciati.
Io questo me lo sono chiesto. Nella prefazione del libro di Roberto [Il caso non è chiuso. La verità sull’omicidio Siani, Roberto Paolo], si parla delle invidie dei giornalisti: “Ma come, io ho scritto di più di camorra..”. No, io credo che il meccanismo sia diverso e imponderabile, nel senso che noi non riusciamo a ragionare come può ragionare un camorrista o un mafioso. Quindi non conosciamo il meccanismo che può scatenare quella che non è solo l’ira, ma quella che è la decisione di eliminare qualcuno perché “scomodo”. Se io penso alla mia esperienza, dopo 41 anni di professione, dopo 35 anni da cronista di mafia, camorra e ‘ndrangheta – perché questo è stato ed è il mio ramo di interesse, scrittura e memoria – è capitato di subire minacce, e oggi nel 2015 sono finito sotto scorta. Ci sono state tante occasioni di pericolosità, ma l’infangata, l’infamità ti capita, appunto. Il pezzo famoso di Giancarlo – quello che presumibilmente segnò la sua condanna – è l’infangata dell’arresto di Valentino Gionta su una soffiata fatta ai carabinieri: il cronista rende pubblico quello che era stato. Io non credo che Giancarlo pensasse che dopo quell’articolo potesse diventare un obiettivo. Questo non per dire che sottovalutasse la situazione: i pezzi di Giancarlo sono pezzi di cronaca, di scontri nei clan, di appalti e di cosa pubblica, di amministrazione di comune eccetera.. è un mestiere sempre più difficile. Oggi come ieri, su questo si sconta la solitudine. E Giancarlo era solo, era l’ultimo degli arrivati nella casta dei giornalisti. Lui non faceva parte della casta. Io ho un ricordo di un episodio che a me sconvolse: erano gli anni settanta e un ragazzo del Wwf fu ucciso in una piazza di Napoli, piazza San Nazzaro, di sera, solo che i cronisti che erano in questura decisero tutti insieme di dare la notizia il giorno dopo. Si trattava di un ragazzo, ucciso in un agguato di fascisti: questa era l’informazione dentro i meccanismi del potere di una città, era la “cricca” dei giornalisti. Però dall’altra parte c’erano i ragazzi alla Giancarlo Siani per la carta stampata, questa generazione di cronisti che entrò in Rai a fare l’informazione regionale. Almeno il sottoscritto – non tutti, ma anche altri – quando succedeva un fatto di cronaca usciva con l’operatore a raccontare le immagini. È stato un nuovo modo di fare giornalismo. Certo c’erano i Joe Marrazzo e i Mastrostefano della Rai, ma noi siamo andati avanti, siamo andati oltre, con questo modo di stare tra la gente e raccontare i fatti.

Quant’è importante fare il giornalista ‘giornalista’ in quella zona? Su Facebook scrive che il sindaco di Mugnano dice che «parlare di camorra, raccontarne le dinamiche, sia sempre utile, il problema sorge quando la camorra la si nega, la di nasconde». Come diceva Siani, è questo quello che fa il giornalista: informare e denunciare.
Quando si è saputo che il capo dei casalesi voleva ammazzarmi, ho fatto il paragone con i commercianti e gli imprenditori. Libero Grassi nel ’91 fu ucciso a Palermo perché era solo: era l’unico imprenditore che non pagava il pizzo per la sua dignità, gli altri pagavano. E così se oggi è stato solo Giancarlo a scrivere su Torre Annunziata in quel modo, se sono solo io a scrivere, a raccontare in televisione il clan dei casalesi, è chiaro che sono esposto. Il vero grido di allarme che lancio è quello di Ossigeno: dall’inizio del 2015, 187 giornalisti hanno subito minacce. E allora posso capire l’invidia e la sottovalutazione degli altri giornalisti, ma credo che proprio l’articolo 21 oggi sia minacciato dalla mafia, dalle mafie. Ieri come oggi. E su questo vedo un silenzio assordante. L’altro giorno sono corso a San Giovanni Rotondo, sul Gargano, perché ad un collega, anche lui precario e poco garantito, avevano incendiato l’auto. Ed è l’ultimo degli episodi. Noi non dobbiamo pensare a Sandro Ruotolo, a Federica Angeli, a Lirio Abbate, noi dobbiamo pensare a tutti questi cronisti. In realtà Giancarlo era un piccolo cronista di provincia e sono quelli che rischiano di più. Io mi sono sempre sentito fortunato per essere un inviato, mentre invece il cronista di un piccolo centro vive lì. Se pensiamo a San Giovanni Rotondo, si tratta di una piccola comunità e se anche solo sui giornali online tu rompi le scatole, racconti, rischi la vita.

Cosa bisogna fare per contrastare quest’indifferenza?
Innanzitutto penso che il “tengo famiglia” non valga più per i colleghi. C’è un monito interno alla categoria che è quello di svegliarsi, di non lasciare soli i colleghi, ma di essere in tanti: se tu racconti qualcosa da solo, rischi; se invece si è in tanti a raccontarla, si rischia meno, perché ci sono mille obiettivi. Dall’altra parte la politica non può sottovalutare la questione: dall’agenda del governo è scomparsa la lotta alla mafia, è scomparso il Mezzogiorno. C’è tutto un dibattito a Napoli sulle parole del presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, ma proprio la cronaca ci dice che la Bindi aveva ragione sui fatti strutturali di questo fenomeno. Nel Mezzogiorno gli imprenditori non aprono attività, perché non è soltanto il mafioso che ti chiede la tangente, ma è anche il politico. E allora se si vuole risolvere la questione meridionale, bisogna fare una grande battaglia per la legalità. E in questa lotta si deve avere in prima linea l’informazione.

Dopo la morte di Siani cos’è cambiato da questo punto di vista?
Ci sono stati dei punti a favore, l’impegno della società civile, ad esempio. Io dico sempre che, per esempio, in Sicilia, dopo la morte di Falcone sono comparse le lenzuola bianche e quel magistrato era il figlio di Palermo, un figlio che Palermo piangeva. I siciliani scoprirono il dolore per la morte di un magistrato. Noi a Napoli abbiamo avuto le marce anticamorra, sin dall’inizio degli anni ottanta – io partecipavo a quelle marce, e credo lo facesse anche Giancarlo –, quindi l’indignazione c’è stata. Bisogna però tener conto della stanchezza. Perché non avendo risolto le questioni strutturali, si hanno di nuovo questi periodi di recrudescenza, di stanchezza, per cui oggi si muore di nuovo in modo violento a Napoli, la camorra non è affatto sconfitta e, addirittura, oggi, è indagata anche la presidente della Commissione antimafia della Regione Campania che si è dovuta dimettere. In alcune indagini, proprio sul clan Mariano – caln del centro storico dei Quartieri Spagnoli – si sente parlare di voti a quel consigliere piuttosto che all’altro. È cambiata la camorra rispetto ad allora: prima parlavamo di numeri massimi, sia come omicidi che come affiliati. Molti di quegli affiliati sono usciti dal carcere, anche recentemente: per quei reati che non sono omicidiari, infatti, come può essere l’estorsione o l’associazione a delinquere, si esce dal carcere. E il camorrista che esce dal carcere che cosa fa? Continua a fare il camorrista. Sono stati fatti dei passi avanti, ma non è stato fatto abbastanza. Io capisco anche tutti quelli che lavorano nelle associazioni, nella società civile, che rivendicano l’orgoglio di non essere equiparati agli altri, però la camorra c’è, la mafia c’è. Non è la mafia delle stragi del ’92, è una mafia che ha cambiato pelle. C’è la ‘ndrangheta che, invece, è forse quella più forte e pericolosa perché continua ad avere consenso sociale nella sua terra di origine, ma i riti di affiliazione avvengono in quel di Milano. C’è il comune di Brescello in Emilia Romagna che rischia di essere sciolto per mafia. Io dico che bisogna di nuovo fare una battaglia. E mi interessa poco – detto francamente – se la categoria dei giornalisti aderisce o meno. Con l’Articolo 21 noi abbiamo il dovere di essere liberi e di poter raccontare liberamente e ci sono i cittadini che hanno il diritto di essere informati correttamente. Per questo serve la società civile, serve una grande mobilitazione.

Perché è importante, a trent’anni dalla morte, ricordare Giancarlo e ricordarlo con forza, soprattutto oggi?
Perché un Paese senza memoria non ha futuro. Giancarlo è un eroe civile. Non voglio essere frainteso, però un Paese è democratico quando c’è la libera informazione: il fascismo diventa regime nel momento in cui Mussolini toglie la libertà di stampa. Ogni volta che si minaccia o si uccide un giornalista a rischio è proprio la democrazia. L’arma del giornalista sono la parola e la scrittura, quindi quando si uccide o si minaccia un giornalista, si minaccia la democrazia.


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