Quando i giornalisti diventano nemici. Una giovane cronista alle prese con i cortei no-vax

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Per circa due mesi, il sabato era il giorno delle manifestazioni no green pass. Come un déjà-vu, ogni sabato ricordava quello precedente. Cambiava poco: qualche bersaglio in più in base alle posizioni prese da virologi, politici o giornalisti, nuovi cori improvvisati ma poi ripetuti da tutti a gran voce e quel senso di incertezza che in qualche modo segna l’epoca che stiamo vivendo. Non si sapeva che tipo di manifestazione ci sarebbe stata quel sabato, come sarebbe stata gestita e spesso neanche di preciso il perché si fosse lì.

Cortei (autorizzati e non), sit-in e proteste di vario tipo hanno per circa 20 sabato di fila attraversato Milano, la città che si è trasformata nell’epicentro delle manifestazioni contro il green pass. Per alcune settimane, le ho seguite nella loro imprevedibilità come inviata di Radio Popolare. Tutto prendeva il via (o almeno così si pensava) dai gruppi Telegram. Entrandoci era chiaro che più che in gruppi per creare una community, si era dentro a un tunnel di odio e disinformazione, dove non c’erano regole. Tanto che, di settimana e in settimana, alcuni venivano chiusi e ci si rendeva conto che le comunicazioni “ufficiali” delle manifestazioni non passavano da lì, ma da canali meno virtuali e più improvvisati, come il classico passaparola.

La prima manifestazione che ho seguito era quella del primo sabato di settembre. Reporter, giornalisti e cronisti si contavano sulle dita di una mano. Tutto era ancora molto in divenire: erano da poco finite le vacanze estive, si parlava di come tornare a scuola o in università, di green pass esteso ad alcune categorie e il virus circolava meno. Poi sono arrivate le grandi proteste in altre città, le manifestazioni dei portuali di Trieste, la degenerazione morale e civica con l’assalto alla sede della Cgil di Roma da parte di un gruppo di esponenti di Forza Nuova (e non solo) che erano scesi in piazza con il pretesto di manifestare proprio contro il certificato verde. Era il 9 ottobre 2021 e forse solo in quel momento si è capito che queste manifestazioni erano anche diventate veicolo di altro, strumentalizzate politicamente, vettori di estremismi.

Così, anche a Milano le cose sono cambiate. Le manifestazioni continuavano, ogni sabato, si incattivivano. Aumentavano i controlli, aumentavano i manifestanti e si moltiplicavano anche i giornalisti. Le troupe televisive – più riconoscibili vista l’attrezzattura tra videocamere e microfoni – erano i bersagli preferiti, perché segnalavano che lì c’era un giornalista. O, come definito nei vari cori dei no green pass, un «terrorista», «un assassino della verità» con cui non si vuole avere a che fare. Ma, allo stesso tempo, le telecamere attiravano i manifestanti. Prima allontanate, poi “catturate” e trasformate nel loro megafono, tra complottismi, negazionismi e non solo. Un bersaglio voluto più che temuto, definito nemico e fatto proprio come se fosse un obiettivo da conquistare.

Arrivano le prime minacce a giornalisti, gli spintoni, la violenza verbale. «Parla parla, tanto ti tagliano»: una delle frasi più sentite quando alcuni manifestanti, contro il volere del proprio entourage, concedevano qualche intervista. Bastava poco per scaldare gli animi. Anche un quaderno o una penna tirata fuori dalle tasche per annotarsi i vari slogan. Oppure una domanda. Come quando, mi sono trovata a chiedere off-the-record informazioni sull’itinerario del corteo previsto quel giorno a un manifestante – uno di quelli che poco dopo avrebbe guidato il gruppo con tanto di megafono in mano. Invece di una risposta, una lunga polemica contro «voi giornalisti».

Vista a posteriori, era proprio la logica del «voi-noi» che dominava il rapporto tra manifestanti e cronisti. I primi che man mano perdevano i pochi che si erano auto-proclamati leader perché la polizia impediva loro di manifestare. I secondi, i giornalisti, che viaggiavano sempre più in massa, barcamenandosi tra itinerari deviati, indicazioni non chiare, timori e l’imprevedibilità di queste manifestazioni.

Poi sono arrivati i weekend di novembre, Bob Kennedy Jr come guru no vax e no green pass, la circolare del Viminale che vietava le manifestazioni in movimento nelle aree considerate sensibili. Ma i cortei comunque proseguivano. Mentre i numeri dei contagi crescevano, quelli dei partecipanti alle manifestazioni no green pass diminuivano fino a che tutto quel subbuglio sembrava essersi fermato, quasi senza che ce ne rendessimo conto. Imprevedibile, forse anche in questo lento scemare.

Fare il cronista in condizioni di imprevedibilità fa parte del gioco: si seguono gli eventi che possono cambiare da un momento all’altro, si provano a capire, si raccontano. Ho imparato che fare il cronista richiede un occhio diverso – un occhio bionico! – quando quello che si sta vedendo è tanto semplice quanto complesso, quando dietro a quelle poche migliaia di persone – e dietro ai loro slogan contro il green pass o talvolta contro i vaccini – si nascondono un’infinità di idee, ideologie o pseudo tali. Soprattutto quando si viene visti come nemici, indicati con un «voi» in cui nessun cronista può riconoscersi.

Simonetta Poltronieri, studentessa della Scuola Walter Tobagi dell’Università Statale di Milano


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