L’elenco non si ferma, si aggiorna con una regolarità terrificante. L’ultimo nome è quello di Anna Tagliaferri, imprenditrice di 40 anni di Cava de’ Tirreni. È stata colpita almeno sei volte con un coltello da cucina dal suo compagno coetaneo, Diego Di Domenico. L’ha uccisa in casa, davanti agli occhi della madre di lei, che nel disperato tentativo di difendere la figlia è rimasta a sua volta ferita. Dopo l’omicidio, l’uomo è salito sul tetto e si è lanciato nel vuoto, morendo sul colpo. Una dinamica che le forze dell’ordine definiscono “chiara”: un femminicidio-suicidio.
Nella comunità, dove Anna era nota e stimata per la sua storica pasticceria, regnano lo sconcerto e l’incredulità. Emerge un dettaglio tanto comune quanto agghiacciante: non risulta alcuna denuncia, nessuna segnalazione che potesse far presagire la tragedia. Un silenzio che ha preceduto l’esplosione di una violenza mortale. Il sindaco ha sospeso le iniziative natalizie, un gesto di lutto che sottolinea come ogni femminicidio sia una ferita per l’intera collettività.
Quasi nelle stesse ore, nel Varesotto, un’altra storia di violenza estrema ha trovato un epilogo diverso solo grazie al coraggio della vittima. Una donna di 50 anni, terrorizzata in auto dal suo aguzzino, è riuscita a fare con la mano il segnale internazionale di richiesta d’aiuto. Qualcuno lo ha capito e ha dato l’allarme. L’uomo, un 37enne conosciuto online che le aveva mentito sul suo stato civile, è stato arrestato. Alle sue spalle, una scia di abusi terrificanti: percosse così violente da mandarla in ospedale, seguite da altre botte perché convinto che lei avesse avuto un rapporto con il medico; l’obbligo di denunciare per stupro un vecchio amico; giorni di sequestro in casa, costretta a vivere con lui, la moglie e la figlia, in attesa che i lividi sul suo corpo svanissero. In un’occasione, la moglie dell’aggressore, vedendo la vittima tumefatta, ha commentato: “Pensavo peggio”. Una frase che svela un abisso di soggiogazione e normalizzazione della violenza.
Questi due episodi, uno culminato nella morte, l’altro in un arresto che sa di salvezza, non sono schegge impazzite di cronaca. Sono la manifestazione esatta del bilancio dei femminicidi del 2025, che non è una contabilità, ma una sentenza. Al 21 dicembre, il numero delle donne uccise in Italia sale a una stima di 86 casi. Donne morte per accoltellamento, per colpi di arma da fuoco. Altre cause del decesso sono soffocamento o strangolamento, percosse, colpi di forbici, di pietre, colpi d’ascia e di martello, caduta dalla finestra.
Questo bollettino di guerra ha un’origine precisa e desolante: la stragrande maggioranza di queste vite è stata spezzata non da un estraneo nell’ombra, ma dall’uomo che avevano accanto, il partner o l’ex. Non è il racconto di raptus imprevedibili, ma la cronaca di un potere maschile che, quando messo in discussione, si trasforma in violenza letale. L’assassino non è un mostro eccezionale, ma l’esecutore finale di una cultura del possesso che non tollera l’autonomia, la libertà, l’abbandono. Ogni donna uccisa è la vittima di un uomo che ha confuso l’amore con il controllo e ha considerato il “no” di lei come un’offesa intollerabile al proprio ego, da punire con la morte.
Ogni singola tragedia è un atto d’accusa verso un sistema che si dimostra cronicamente inadeguato. Le leggi, pur presenti, si infrangono contro denunce inascoltate, valutazioni del rischio superficiali e una macchina della giustizia che interviene spesso quando è ormai troppo tardi. La prevenzione, vera unica arma efficace che parte dall’educazione al rispetto nelle scuole, rimane una Cenerentola del dibattito pubblico, sacrificata sull’altare di una perenne logica emergenziale.
Il 2025 si chiude quindi non solo con il lutto per Anna e le altre 85 donne, ma con la fotografia di un fallimento collettivo. Il femminicidio non è un’emergenza di ordine pubblico, ma il sintomo più violento di una malattia sociale. E la domanda che resta sospesa, pesante come un macigno, è cosa debba ancora accadere perché si comprenda che questa non è una questione privata, ma la più politica delle battaglie. Una battaglia non più rimandabile, una questione di civiltà
