Negli ultimi mesi, l’attenzione internazionale si è molte volte concentrata sui conflitti più evidenti in altre parti del mondo, lasciando in ombra una delle crisi umanitarie più antiche e drammatiche del continente africano: la guerra in Sudan su tutte.
Mentre si apre il nuovo fronte sui Monti Nuba, il bilancio delle vittime è triplicato: sarebbero almeno 450 mila, secondo fonti sudanesi. Un numero di morti triplicato in pochi mesi, come purtroppo temevano e avevamo drammaticamente anticipato.
Dopo i massacri nel nord del Darfur, le Forze di supporto rapido si sono spinte nella regione simbolo di resistenza e di fede, il Kordofab. In particolare i Monti Nuba, che hanno visto sconvolgere il fragile equilibrio di pace che durava da tempo.
Fino a pochi giorni fa, sembravano un’isola di sobrietà rispetto alla violenza dilagante del resto del Sudan, dove le fazioni principali — le Forze di Supporto Rapido (RSF) e le milizie governative — combattevano altrove, lasciando questa regione in una sorta di limbo di quiete apparente. Le strade erano sgombre, i soldati assenti: una pace apparente che aveva permesso alla popolazione di vivere tra enormi difficoltà, certo, ma senza il terrore quotidiano di scontri armati o di bombardamenti indiscriminati.
Tutto cambierà, purtroppo, con l’attacco improvviso, come un fulmine a ciel sereno, ai civili nei Monti Nuba. La notizia di un drone che ha colpito una clinica civile vicino a una scuola, provocando oltre 50 morti, tra cui molti studenti e giovani in formazione sanitaria, segna un salto di qualità nel conflitto. Un attacco che non risparmia bambini e civili innocenti, che si trovavano in un’area non militare, ma semplicemente nel loro quotidiano.
Un drono “kamikaze” che esplode a pochi metri da terra, senza preavviso, con un impatto devastante e senza grande cratere, come testimoniano madre Kizito e altri operators sul campo. Questa modalità di attacco segna l’ingresso di una violenza più sofisticata e silenziosa, e se il rischio di escalation rimane alto, la comunità internazionale deve fare di tutto per bloccare questa deriva che rischia di trasformare la regione in un inferno senza ritorno.
Il forte legame dei Nuba con la propria fede, la loro storia di resistenza e di solidarietà rappresentano un esempio vivo di resilienza. Nonostante decenni di guerre e di oppressione, la loro determinazione a restare, a mantenere viva la propria cultura e le proprie tradizioni, emerge forte nel lavoro instancabile di figure come padre Kizito e il medico Tom Catena, che hanno costruito e continuano a sostenere strutture di assistenza sanitaria fondamentali per la regione.
L’attacco di questi giorni e l’intensificarsi dei conflitti devono svegliare la coscienza globale. La guerra nei Monti Nuba non è una guerra dimenticata solo per mancanza di interesse, ma perché le sue ferite si sono troppo spesso accumulate sotto la superficie dell’indifferenza internazionale. È urgente che la comunità mondiale smetta di girarsi dall’altra parte: la pace, la giustizia e la dignità di questa popolazione devono tornare al centro dell’attenzione, prima che tutto sia perduto.
In un mondo che corre veloce, non possiamo permetterci di perdere questa battaglia per i Monti Nuba. La loro storia di fede, di resistenza e di speranza è un monito per tutti: l’indifferenza è complicità, e il silenzio di fronte alla violenza è una vittoria per gli oppressori. È tempo di fare sentire la voce di chi non ha voce, di agire concretamente per proteggere questa comunità e per cercare una soluzione giusta e duratura.
Il futuro dei Monti Nuba, e con esso la compattezza della pace in Sudan, dipende anche da noi. Non lasciamo che questa guerra, così silenziosa ma così sanguinosa, diventiamo un’altra pagina dimenticata nel grande libro delle crisi globali.
