Siamo nel regno del pensiero unico, d’accordo, TeleMeloni impera e non si vede l’alba, è altrettanto vero, eppure una piccola eccezione è rimasta, anzi due. Si tratta di due fiction amatissime e, non a caso, premiate da un successo di pubblico che a quelle latitudini sembra diventato un miraggio: “Il commissario Ricciardi”, tratto dai romanzi di Maurizio de Giovanni e magistralmente interpretato da Lino Guanciale, e “Un professore” (che trae ispirazione dalla serie tv catalana “Merlí”), con Alessandro Gassman a ricordarci come potrebbe e dovrebbe essere la scuola nel nostro Paese.
Partendo dal Commissario Ricciardi, abbiamo a che fare con un poliziotto umano e anti-fascista nella Napoli degli anni Trenta, capace di vivere con dignità il proprio dolore interiore, di innamorarsi e di lasciarsi andare a una “risata omerica”, come scrive lo stesso de Giovanni, denunciando al tempo stesso preconcetti, pregiudizi e ingiustizie di una società diseguale e violenta, feroce nei confronti degli oppositori e incapace di qualsivoglia forma di perdono. Un commissario fuori dal tempo e dal contesto, dunque, irregolare e a tratti spigoloso, determinato nel portare avanti il suo amore per una maestra borghese pur essendo circondato da donne ugualmente belle e assai più ricche. Del resto, lui stesso è di stirpe nobile ma lavora per portare avanti il suo senso di giustizia, per opporsi alla furia che imperversa ovunque, per costruire una società migliore. E che dire del dottor Modo, del brigadiere Maione, della cantante lirica Livia e di “Bambinella”, il femminiello informatore che pare uscito da un capolavoro di Luchino Visconti? Che dire di quest’umanità dolente e costretta a fare i conti con se stessa, capace di percorrere i rioni più malfamati e le strade delle luci e degli sfarzi sempre a testa alta e con lo stesso sguardo ricco d’amore per il prossimo e di compassione nei confronti dei più sfortunati? Che dire di questa comédie humaine che si snoda lungo quattro episodi, componendo un manifesto del ripudio di ogni fascismo e di ogni intolleranza? Quanto somiglia alla nostra quella società colma d’odio e prossima alla catstrofe! Quanto parla ai nostri giorni questo disperato tentativo di resistere e vivere, nonostante tutto, vivere nella sua interezza, con le gioie e i sacrifici di un’esistenza terribile, talvolta quasi dannata ma non per questo meno degna di essere attraversata col sorriso sulle labbra! Quante descrizioni di de Giovanni potrebbero essere adattate all’oggi, cambiando al massimo qualche nome, senza che nessuno se ne accorga! E come non notare la critica al conformismo, incarnata dalla presenza di figure caricaturali, grottesche e spesso ridicole come i tirapiedi del regime che danno prova di tutta la loro miseria morale in ogni circostanza? Più che descrivere una città, lo scrittore partenopeo, ispirandosi probabilmente a Camilleri, ha inventato un mondo: un mondo anacronistico, in parte vero e in parte favolistico, e dalla miscela delle due componenti è scaturito un gioiello che, come detto, ha incollato davanti al televisore milioni di italiani, stanchi della crudeltà gratuita e delle rappresentazioni falsate della realtà.
Ancor di più questo discorso vale per il professor Dante Balestra, portato in scena da Alessandro Gassman, docente di filosofia in un liceo scientifico della Capitale, uomo più che mai imperfetto, dongiovanni impenitente, a tratti di una maturità straordinaria e a tratti più fanciullo dei suoi allievi; un uomo comune, fragile, sbagliato e, proprio per questo, incredibile nella sua potenza espressiva, al centro di una storia e di una quotidianità che non ha paura di emergere così com’è, di mettersi a nudo e di parlarci di noi. Questo professore, figlio di un’attrice di grido ormai sul viale del tramonto, diviso tra varie donne, con un figlio, Simone, che almeno all’inizio fatica a riconoscerne il doppio ruolo di padre e di insegnante e ad accettare la sua omosessualità, con davanti ragazze e ragazzi smarriti nel vortice di una modernità che li travolge, questo professore sui generis che non alza la voce, non boccia, non insulta, non fa il rodomonte, non approfitta della sua posizione per mortificare gli altri, non giudica e, al contrario, tende la mano persino a un suo ex allievo finito in prigione, questo professore costituisce l’antitesi del cattivismo imperante. E come lui la professoressa di inglese Anita Ferro, interpretata da Claudia Pandolfi: una donna a sua volta sbagliata, piena di problemi e di guai, con un figlio, Manuel, un po’ scavezzacollo ma in fondo buono e generoso, capace di restituire un senso alla sua vita andando a insegnare inglese, dopo aver convissuto con la paura di non farcela, di non arrivare a fine mese, di non poter pagare l’affitto, di subire lo sfratto e di perdere credibilità e autorevolezza agli occhi del figlio e della società nel suo insieme. E così anche la preside Irene Alessi, interpretata da Nicole Grimaudo, madre di Greta, adolescente problematica, inizialmente scontrosa, difficile da comprendere, intelligentissima ma desiderosa di farsi del male; un’altra donna sbagliata, come in fondo lo siamo tutte e tutti, anche se ci rifiutiamo di ammetterlo innanzitutto con noi stessi, non rendendoci conto che così ci facciamo altro male.
Ecco, se qualcosa è destinato a rimanere di questa scuola che nulla ha a che spartire con le linee guida e i dogmi dell’attuale corso governativo è proprio la sua bellezza. La bellezza dell’imperfezione, del prendersi per mano, del condividere un tratto di strada insieme, del volersi bene, del crescere come una comunità solidale in cammino e del rifiutare la logica scellerata della competizione e le altre innumerevoli fesserie tipiche della nouvelle vague attualmente dominante, tutta improntata all’apparenza e alla passione malata per i divieti, gli obblighi e le coercizioni.
Dante Balestra, al pari di Antonio Manzi, il maestro che alfabetizzò l’Italia rifiutandosi pervicacemente di umiliare i suoi allievi con i voti e subendo per questo una sorta di persecuzione da parte del Ministero della Pubblica istruzione, ci ricorda che a cambiare davvero le cose sono sempre stati i folli, gli estrosi, coloro che infrangono le regole in senso positivo, che gettano lo sguardo oltre l’orizzonte e che vedono nell’altro un talento e non un numero, una persona e non un cliente o un consumatore, uno scrigno di saperi nascosti e da tirar fuori e non un povero cristo da terrorizzare con l’esercizio disumano del proprio potere di cartapesta. E così facendo, fa compiere un passo avanti anche a coloro che sono meno idealisti, trascinandoli con il suo coraggio, la sua energia e la sua passione civile, fino a ricollocare la scuola all’interno della società e non in uno spazio a sé, scisso dalla realtà, intriso di inutile nozionismo e, pertanto, privo di interesse.
Mi auguro solo che quest’articolo non lo leggano mai i vertici RAI perché, in caso contrario, non ho dubbi che correrebbero ai ripari.
