Giornalismo sotto attacco in Italia

Stampubblica e noi – Cronaca di una tragedia politica

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Era il 2016 quando Giovanni Valentini, tra i fondatori e per quarant’anni tra le firme più note e stimate di Repubblica, mandò in libreria un saggio dal titolo profetico: “La Repubblica tradita” (Paper First editore). John Elkann era ancora di là da venire, ma il piano era già allora inclinato: a Ezio Mauro, direttore del quotidiano per ben vent’anni, era infatti subentrato Mario Calabresi, ex direttore della Stampa, proprio come Mauro ma con diverse modalità di insediamento (Scalfari, per dire, non era stato informato del fatto dalla proprietà e non è un dettaglio di poco conto). Due direttori targati FIAT (oggi diremmo Stellantis), insomma, quando Barbapapà nel ’74, sull’Espresso, aveva definito Agnelli “Avvocato di panna montata”, nella stagione aurea del giornalismo e della politica italiana. Era, quello, il decennio (che molti si ostinano a indicare solo come “anni di piombo”) dei diritti e della svolta a sinistra, dell’emancipazione delle classi subalterne, del Corriere di Ottone e, per l’appunto, della nascita di Repubblica (14 gennaio 1976), mentre il PCI si apprestava a prendere il 34,4 per cento alle Politiche del 20 giugno ’76 e la Democrazia Cristiana abbracciava come segretario un mite romagnolo della sinistra interna di nome Benigno Zaccagnini. Quel mondo non esiste più, come non esiste più l’apertura della RAI a nuove culture e nuove realtà (la legge 103 del 14 aprile 1975, l’inizio della famosa “lottizzazione”, la sentenza n. 202 della Corte Costituzionale, 28 luglio 1976, che permise alle emittenti private di esistere e trasmettere, sia pur con alcuni vincoli, il ritorno in RAI di Dario Fo e Franca Rame nel ’77, il Tg2 innovativo Massimo Fichera e via elencando) e la partecipazione al voto, all’epoca superiore al 90 per cento, è sprofondata a livelli inquietanti.
Ebbene, in tanta malora, apprendiamo dal Fatto Quotidiano che Elkann, dopo aver dismesso MicroMega e L’Espresso, starebbe pensando di cedere anche Stampubblica (crasi ahinoi rivelatasi veritiera), privando la prima della sua proverbiale torinesità (fra i motivi dell’avvicendamento tra Giannini e Malaguti pare ci fosse proprio la necessità di ri-piemontesizzare la “Busiarda” dopo la parentesi romanocentrica di una delle firme di punta di Rep.) e la seconda del suo ruolo di giornale-partito, termometro e stimolo di quella vasta area liberal-socialista di cui il nostro Paese ha bisogno come l’aria se vuole far vivere la democrazia e il dibattito pubblico a livelli quanto meno accettabili.
Nel nostro piccolo, ci permettiamo dunque di sollecitare le forze politiche a intervenire, dichiarare, organizzare seminari e prendersi a cuore questa vicenda perché non è secondaria. La qualità democratica dell’Italia, difatti, passa anche dalla salute delle sue testate, e l’idea che due giornali così prestigiosi possano avere un avvenire, occupazionale ed editoriale, tanto incerto non può lasciarci indifferenti. Immaginare un Paese in cui “la voce del padrone” non ha più argini – sia esso destroide, confindustriale o nelle mani delle del re delle cliniche Angelucci, incidentalmente anche deputato della Lega con una percentuale di presenze in Aula alquanto bassina – significa immergersi in una distopia orwelliana senza precedenti. E sul punto non si può tacere, come non si può tacere sul paragone compiuto dalla Presidente del Consiglio, nel comizio di chiusura per le Regionali in Toscana, fra la sinistra e Hamas, cosa che mai nemmeno Berlusconi si sarebbe permesso di fare. Siamo andati oltre, come testimonia il vento globale che spira pressoché ovunque, con una destra sedicente popolare e in realtà, per l’appunto, padronale che ritiene di non avere alcun limite, di potersi permettere qualunque umiliazione e di non dover pagare mai dazio, al punto che nelle ultime settimane abbiamo assistito a una ridda di insulti nei confronti dei pacifisti, dei manifestanti per i diritti del popolo palestinese, dell’equipaggio della Flotilla e persino dei giovani scesi in piazza a frotte per esprimere la propria contrarietà verso un modello sociale, economico e di sviluppo disumano e devastante.
Caro Conte, cara Schlein, cari Fratoianni e Bonelli, caro Magi, cari politici che avete a cuore la democrazia, senza un’informazione equilibrata e di valore non solo non nascerà mai il campo progressista ma si spegneranno pure gli ultimi fuochi di ribellione al sistema che quest’epoca di furia e regressione complessiva hanno fortunatamente appiccato, del tutto pacificamente, nei settori più nobili della società.
Mai come ora, rifletteteci, voltarsi dall’altra parte sarebbe complicità, come si evince pure dal progressivo smantellamento dell’automotive nel nostro Paese: una tragedia su cui finora il solo Calenda, gli va riconosciuto, ha pronunciato parole chiare e condivisibili. Non farà parte della coalizione per cui voteremo e ci batteremo, anzi ne è avversario, ma l’onestà intellettuale di sottolineare i pochi meriti che ha non può e non deve venire meno.
Tutto si tiene, tutto si intreccia e il clima si fa sempre più fetido. È rimasto davvero poco tempo: non lo sprechiamo, prima che ci tolgano anche le parole e, con esse, il pensiero, la dignità e infine gli ultimi diritti di cui ancora non ci hanno privato.

Roberto Bertoni e Barbara Scaramucci


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